Con le pistole si possono uccidere i terroristi, con l’educazione si può distruggere il terrorismo.” Malala Yousafzai
Siamo tutti sconvolti di fronte agli attacchi terroristici. Fra questi eventi, la notizia che mi ha colpito di più riguarda Tarik. Dopo esser fuggito dall’Italia per andare a combattere in Siria con l’Isis, è morto martire della jihad. Era un ragazzo marocchino che ho conosciuto durante il mio periodo di lavoro nella comunità Kayros di Vimodrone. Per qualche mese, sono stata la sua educatrice.
Ho passato i giorni seguenti a riflettere, avevo bisogno di capire il motivo di questi attacchi e dell’allarme generico che si è diffuso.
Davanti al terrore si ha tutti paura. Personalmente più che paura di andarmene in giro per Londra e per l’Europa serena e tranquilla, ho il timore degli effetti dell’evento terroristico. Ho paura di ciò che può scaturire nella mente di ognuno di noi, i possibili interventi “veloci” che risultano inutili. Di chi vuole costruire muri e vivere sempre nel proprio orto quotidiano. Probabilmente sarebbe più comodo ma inerme. È vecchia l’idea del terrorista appartenente ad un paese specifico, i casi di Parigi e Bruxelles ne sono la prova.
Davanti agli attacchi, di solito reagisco in silenzio, mi informo e cerco di ragionare su ciò che sta capitando. Io non sono per il “Pray to” ma condivido l’idea del “Dobbiamo fare qualcosa”. La polizia aumenta i controlli, c’è chi si barrica in casa e chi continua, per fortuna, a viaggiare.
Noi educatori cosa possiamo fare?
Il compito di un educatore è di accompagnare le persone nel proprio percorso, promuovendo benessere sociale e individuale. Nella pratica quotidiana, ciò che ho imparato di più è quanto il benessere individuale sia possibile raggiungendo quello sociale, abbattendo le barriere della solitudine.
Per questo dobbiamo sviluppare e promuovere coesione sociale.
Vivo in una città estremamente culturale amando la mescolanza di interazioni possibili. Anche una parte dell’educazione è basata sull’integrazione delle varie culture. Ed è proprio quello che noi educatori dobbiamo fare: agevolare gli incontri, sviluppare processi sociali.
Pensiamo ai giovani attentatori cresciuti in Francia, che hanno condiviso le stesse esperienze dei coetanei che hanno ucciso al teatro Bataclan. Nel momento degli spari, hanno prodotto terrore, paura, hanno sparato non provando rimorso, nessun tipo di vicinanza per le persone, con cui avevano vissuto fino ai dieci minuti precedenti.
I primi strumenti che abbiamo nella lotta contro il terrorismo sono inclusione e coesione sociale. So che a detta di molti, può sembrare un’idea buonista ma sono convinta che sia l’unica strada percorribile. Nessun muro potrà garantire la totale sicurezza. Si studia storia per non ripetere gli stessi errori, giusto?
È essenziale una cultura condivisa.
Partiamo dalla fascia 0-3 anni, facendo diventare le famiglie protagoniste attive e punto di partenza della comunità. A Londra, molti quartieri organizzano numerose attività per famiglie. Lettura di fiabe, balli e canti nelle biblioteche durante la settimana, fiere nei weekend. Tutto gratuito per favorire la coesione sociale tra famiglie per conoscersi, aiutarsi e condividere alcuni momenti di vita insieme.
L’educazione relazionale trova anche nella scuola, un luogo privilegiato: si fa pratica della vita in società. Penso ad un’istituzione scolastica che da reali opportunità di collaborazione tra gli studenti, premiamo i lavori di gruppo, creando un processo di community learning. Facciamo scomparire la competizione, le gare. Apriamo le porte delle nostri classi, creiamo una rete con il territorio e instauriamo relazioni forti.
Progettiamo momenti di condivisione con le case di riposo, i centri diurni per disabili, i centri di aggregazione giovanile. Trasformiamo l’ora di educazione religiosa in un tempo che offre una visione generale delle religioni principali, con delle visite nei vari luoghi di culto come le moschee musulmane, le chiese cattoliche, i templi Hindu ect. Nella scuola inglese, questa è una pratica che già è attiva. Festeggiamo il Natale cristiano ma anche il capodanno cinese a gennaio. Incentiviamo il bilinguismo. Accogliamo gli studenti stranieri per aprire dibattiti e far conoscere tradizioni e prassi di altri paesi. Per abbracciare la diversità come parte della realtà ordinaria. Una scuola che guarda anche al processo educativo e non solo al prodotto finale. Abbiamo bisogno di un’istituzione scolastica che smonti gli stereotipi e sviluppi l’appartenenza ad una comunità, fondata su valori che rispettino la dignità di ogni persona. Per questo nel Belgio in lutto nazionale, le scuole sono state tutte ostinatamente aperte.
Deve fare la sua parte anche il comune. Al termine della scuola per gli adolescenti si potrebbero pianificare delle attività comunitarie, con un piccolo dispendio economico. Lavorare nei centri estivi, essere di supporto per le associazioni che si occupano di anziani, di disabili. Si potrebbero organizzare dei corsi per imparare un mestiere, con la collaborazione degli esercizi commerciali della zona. Penso ai canili di zona, alle tipografie.
Questi sono degli esempi di programmi di prevenzione. Certo, servono i fondi e i finanziamenti del welfare sono scarsi ma occorre agire.
Inoltre, attiviamo risorse per la mediazione sociale. Nella società attuale, la capacità di gestire i conflitti diviene un fondamentale strumento. Un gruppo di persone diventa una vera comunità quando queste si accettano, si ascoltano, condividono spazi, idee, e regole comuni sul proprio spazio sociale.
Non è un lavoro semplice, soprattutto in questa società super individualistica. Si sa, noi educatori abbiamo delle responsabilità nella relazione con l’altro che ricadono nella comunità. In questo periodo storico dobbiamo avere quel pizzico di coraggio e volontà per fare ancora di più la nostra parte. L’educatore deve anche tramsettere un’idea di futuro. Produciamo relazioni, incontri, sperando che questo lavoro incida sulla coscienza di tutti.
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