Per lavorare come educatori basta la passione?

“Per lavorare come educatori, bisogna avere la vocazione”

Ho sentito questa frase milioni di volte, come se fosse un mantra di vita. Un credo. Il Sacro Graal dell’educazione. Tante sono le occasioni in cui l’ho ascoltata, tanto è la sua assurdità.

La gravità non risiede tanto nell’affermazione in sé, se a nominarla fossero le nostre nonne, o qualcuno di estraneo al nostro mestiere. Abbiamo appena conquistato il riconoscimento giuridico, quello sociale è un lontano miraggio. Il problema nasce quando siamo noi educatori a definirci con il termine vocazione.

Si chiama attitudine.

Trovare ostacoli nella categoria stessa è davvero desolante oltre che controproducente. Come professionisti, dobbiamo avere la capacità di compiere valutazioni adeguate sul lessico che si usa, ed utilizzare la terminologia corretta. Altrimenti continueranno a confonderci con preti e animatori, quando dietro il lavoro educativo c’è ben altro. Come tutti i mestieri, viene svolto in modo differente se chi lo pratica lo ama ed è contento di ciò che fa ma questo vale, per qualsiasi attività si eserciti.

Il volontariato è una passione, il lavoro è una PROFESSIONE.

Se si sceglie un mestiere, è perché ci piace. Usare la parola “passione” non è fortemente scorretto. Un ingegnere lavora con passione, lo stesso un falegname o un infermiere. Solo che per l’attitudine alla nostra professione, le azioni del sostenere ed accompagnare spesso vengono tradotte in mero aiuto che molti confondono con il lavoro dei missionari (senza offendere chi ha scelto questa strada). È uno dei tanti stereotipi che ci accompagnano. Insomma la passione, in ambito lavorativo, è effimera. Non basta. Non si completano i pei e non si stringono rapporti di fiducia e collaborazione con i servizi territoriali della zona.

Si crea confusione.

Questa condizione fa male principalmente a noi. Perché ci sono tanti datori di lavoro che cavalcano l’onda della vocazione, per avere la scusa di non pagare adeguatamente o non voler pagare affatto. Persone disoneste che ci considerano dei babysitter, sfruttando il nostro sapere a loro vantaggio. Specialmente se detto ad un colloquio, la fregatura sarà immediata.

Partire dal presupposto che le nostre siano missioni umanitarie scredita le nostre azioni. Non siamo le reincarnazioni di Madre Teresa di Calcutta. Se non riusciamo a valorizzare il nostro ruolo, a proporci con dignità, a venderci, come possiamo pretendere che chi troviamo davanti (genitore, coordinatore, collaboratore) possa valutarci per le nostre competenze e non solo per la nostra scelta di lavorare nel sociale?

Per ottenere questo obiettivo, dobbiamo lavorare tutti verso la stessa direzione. Usare un vocabolario scientifico, combattere lo stereotipo ormai diffuso dell’educatore cuori e amore.

Siamo professionisti, non missionari.

Chi fa volontariato basa la propria azione sull’istinto, sull’affetto ed emulazione. Gli educatori si occupano di promuovere e sviluppare le potenzialità degli utenti con obiettivi educativi e relazionali, affinché si possa raggiungere un livello di autonomia tale da rendere inutile il suo intervento. Usiamo dei riferimenti scientifici.

La differenza è enorme.

Perché “avere il cuore grande” non è una caratteristica degli educatori. Non lavoriamo per bontà d’animo e non lo riteniamo un passatempo. Essendo una professione specializzata, richiede una serie di conoscenze imprescindibili e trasversali, per questo la laurea è un punto di partenza importante.

Abbiamo un estremo bisogno di professionisti competenti in grado di vedere oltre il possibile, scardinando tradizioni ormai superate, mettendo in campo conoscenze, un’attenzione spiccata e la capacità di mettere in gioco le proprie abilità, con la curiosità sempre in tasca della continua formazione. La passione è solo una piccola parte di questo movimento. 

Occorre partire dall’interno, dal nostro modo di inquadrare la categoria, di pensarci come specialisti per diffondere una cultura di una elevata qualità educativa.

Posso comprendere che la confusione sia dettata anche dalle condizioni organizzative, economiche e contrattuali che subiamo ogni giorno. Spesso così improbabili che richiedono alla figura educativa un vero e proprio sacrificio personale, e trasformano il nostro lavoro in una lotta contro i mulini a vento. Capisco chi accetta qualsiasi compenso pur di lavorare, la situazione è davvero critica,  ma le conseguenze di danno di immagine alla categoria sono notevoli.

Inoltre è ancora insita l’idea che lavorare con il mondo dell’infanzia significhi solo giocare, facendo trascorrere il tempo in modo inerte. Ignorando l’importanza della qualità dell’educazione nei primi anni di vita e pubblicizzando un’immagine di infanzia sbagliata, fatta di piccolini inermi. I bambini sono persone, che fanno parte di una cultura dell’infanzia propria e specifica, ed ha bisogno di tutto il sostegno degli adulti autentici per sviluppare una propria identità. Non lavoriamo solo con i bambini. Siamo anche a contatto con situazioni di forte disagio sociale, relazionale, mentale lavorando con utenze complesse. Pensiamo ai servizi per la tossicodipendenza, RSA, comunità di minori e disabilità adulta.

Forse, queste sono alcune motivazioni che spingono l’opinione pubblica a definirci come dei missionari e dei meri babysitter. Sbagliato. L’educatore non salva nessuno. Sostiene e supporta. Pianifica ed elabora.

Per cui cari colleghi, eliminate la vocazione dal vostro vocabolario perché  se già noi proponessimo un’altra immagine da quella descritta, sarebbe davvero una grande evoluzione.  Per tutti. 

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Annalisa Falcone
Sono un’educatrice e pedagogista. Non potrei immaginarmi a vivere felicemente senza questa meravigliosa e faticosa professione. Adoro leggere e la pedagogia è la mia passione più grande. Ho studiato e lavorato a Milano, Bologna e ad Alicante, piccolo e piacevole paese a sud della Spagna. Faccende di cuore mi hanno portato nel 2015 nell’affascinante Londra.

1 Comment

  1. Purtroppo è dal 2003 che sento questo discorso ancor prima di laurearmi in Scienze dell’Educazione. Da quell’anno di acqua sotto i ponti ne è passata: anni di DURO lavoro, un master, un triennio di counseling, progetti europei. Purtroppo per le grandi aziende del sociale io economicamente valgo poco più di un educatore che ha appena iniziato a lavorare.

    Credo che questo sia uno dei grandi problemi degli educatori: l’incapacità di riuscire a far valere le proprie competenze e duri anni di lavoro ed esperienza maturati.
    Questa democrazia apparente mette sulla stessa livella il primo entrato e l’operatore con esperienza decennale massacrando questa professione. Secondo voi un operaio che ha appena iniziato a lavorare, rispetto ad un proprio collega che lavora da 10 anni, riceve lo stesso salario?
    Perché io educatore dovrei fare più del minimo sindacale se nessuno valorizza il mio operato? Attenzione! Per valorizzare non intendo dirsi a vicenda “Bravo, bravo!”
    Purtroppo con un “bravo bravo”, un 10+ o una stellina d’oro sul quaderno a righe grosse non ci pago il mutuo!

    Sembra che l’educatore medio abbia inculcato il concetto che sia sbagliato parlare di soldi rispetto alla propria professione ma, come riporta giustamente questo articolo, il nostro lavoro è un LAVORO ed in quanto tale dovrebbe avere una forma di valorizzazione economica meritocratica.

    Noi educatori non riusciamo a spostarci da questo loop per difficoltà intrinseche ed estrinseche alla nostra categoria e, dalla mia personale (e confutabile esperienza), siamo destinati a rimanerci per sempre. Citando Ghezzi: Pessimismo e Fastidio!
    😀

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