Perché ci serve un’educazione contro gli stereotipi di genere

Per “parità” non si intende “adeguamento: alla norma “uomo”, bensì reale possibilità di pieno sviluppo e realizzazione per tutti gli esseri umani nella loro diversità”. Sabatini A., nel “Il sessismo nella lingua italiana”, 1987

Si parla spesso degli stereotipi di genere, della scelta di educare senza porre costrizioni sessiste fin da piccoli.

Cosa si intende con educazione di genere? Coincide con la pedagogia di genere? Perché fare educazione di genere senza una base teorica stabile significa abbandonare e lasciare al caso una parte importante delle relazioni ed esperienze formative.

La pedagogia di genere è l’insieme di studi sull’Educazione di genere, condotta da pedagogiste/i, coordinatrici/ori di servizi educativi, esperte/i nei processi formativi. Si interroga rispetto alle nuove teorie e alle loro possibili ricadute educative. I ricercatori di questo ramo della pedagogia costruiscono linee guida in grado di rispondere ai bisogni inediti.

L’educazione di genere traduce la base teorica nell’agire pratico, per esser trasportate all’interno dei servizi educativi.  

La situazione è fotografata dal Global Gender Gap Report. Il rapporto della Commissione europea del 2010 Gender Differences in Educational Outcomes emerge che tutti i paesi europei, tranne qualche eccezione, si stanno mobilitando per mettere in atto politiche in materia di parità. Tra le eccezioni rientra anche l’Italia che viene annoverata in quei paesi “sprovvisti di politiche sostanziali in materia di parità di genere tra i sessi nel campo dell’istruzione.”

L’Unione europea rimprovera all’Italia la scarsa attenzione alle questioni di genere, in particolare quelle concernenti alle disparità tra i generi sul lavoro, in termini di carriera e di retribuzione (gender e gap) e la difficoltà di accesso per le donne ai vertici delle imprese.

Nel 2011 è stata firmata la Convenzione di Istanbul. Gli stati firmatari, Italia inclusa, hanno l’obbligo di promuovere delle politiche per superare gli stereotipi di genere “per sradicare pregiudizi, tradizioni, costumi e predisporre un piano formativo che includa, tra le materie scolastiche, a ogni livello di istruzione, argomenti come l’uguaglianza di genere, la rottura dei ruoli stereotipati, il reciproco rispetto”.

In Italia la questione della disuguaglianza di genere in ambito educativo non è stata percepita come una questione problematica. Siamo uno dei paesi europei con il più alto tasso di femminilizzazione del corpo docente, con il 78,5 % di donne insegnanti.

Forse perché la cura dell’educazione è ancora considerato un ambito femminile o che l’insegnante non è una figura di prestigio. Per la donna può andar bene, mentre l’uomo desidera qualcosa in più.

Dovremo farci davvero qualche domanda.

Emerge la necessità di una formazione specifica per i docenti e la progettazione di percorsi di orientamento per incoraggiare ragazzi e ragazze a decidere del proprio percorso formativo e professionale basandosi sui loro interessi, invece che su qualcosa di socialmente imposto.

Il rapporto Gender Differeces in Educational Outcomes evidenzia che circa la metà dei paesi europei tiene conto del problema della segregazione formativa, ma la interpreta come un problema solo femminile.  

Mancano delle strategie educative globali per superare gli stereotipi di genere che condizionano fortemente anche i percorsi formativi maschili.

Gli stereotipi sono limitanti non solo per le femmine ma anche per i maschi che subiscono fin da piccoli, un vero e proprio addestramento dannoso alla virilità.

Si tratta di educare all’identità come desiderio e non come destino, ovvero a diventare ciò che si desidera e non come la società si aspetta. Per realizzare questo scenario, si devono compiere alcuni passaggi. Bisogna fare attenzione ai propri pregiudizi, per evitare che rinforzino i copioni di genere dominanti. Come sgridare una bambina perché gioca con  supereroi o un bambino che si diverte con le bambole.

Significa anche fornire loro, una pluralità elevata di modelli e di immaginari possibili entro i quali possano rintracciare delle strade alternative a quelle disponibili.

Chi fa educazione ha l’opportunità (e forse anche l’obbligo morale) di fornire modelli alternativi, di riscrivere i finali della favole, di inventare i nuovi personaggi e modalità inedite di interazione, di supportare il percorso di scoperta del sé anche quando in contrasto con le aspettative sociali di genere.

Pensiamo ai giochi che gli proponiamo, alle letture che scegliamo con loro. Facciamoci caso, poniamo questa attenzione.

I giochi attivano numerosi funzioni: l’esplorazione, l’espressione, la comunicazione, il movimento, la costruzione e il ragionamento. Non esistono funzioni più adatte per le femmine o per i maschi, perché non esiste alcuna “predestinazione biologica”.

Non è necessario abolire principesse, distruggere i supereroi, e spingere i bambini verso dei giochi neutri a prescindere. È utile fare in modo che diversi giochi siano di libero accesso a maschi e femmine. Devono essere ugualmente sostenuti e incoraggiati senza sottolineare l’adeguatezza di genere. Si comincia così a scardinare gli stereotipi. Anche perché ricordiamolo sempre. I giochi non hanno sesso.

I bambini acquisiscono attraverso i giochi destinati a maschi e femmine le imposizioni culturali della società. Dipende molto da noi, dal mondo in cui comunichiamo, ci comportiamo. Qualche mese fa è uscita la versione giocattolo del mocio vileda, con la pubblicità che ritraeva un bambino e una bambina che giocavano a pulire. Perfetto, messaggio forte e chiaro.

 

Peccato che io ho visto questo gioco, più volte posizionato nella tremenda “catalogazzione” troppo rosa dei giochi per bambina. Per questo è importante diffondere una cultura priva di stereotipi di genere.

In questi ultimi anni, il tema dell’educazione di genere inizia ad essere percepito collettivamente come un ambito centrale su cui investire perché considerato un elemento propedeutico alla costruzione delle nuove relazioni tra maschi e femmine, paritarie e non violente.

Le istituzioni devono sostenere questo progetto. Ognuno deve fare la sua parte.

La mancanza di pari opportunità ha un impatto forte su tutta la società. Perché una nazione in grado di garantire la parità. fra sessi è uno stato che sta bene complessivamente.

In Italia, quando c’è stato il tentativo di fare qualcosa, è scattato l’allarme “teoria del gender”. Usando una parole inglese, molti hanno provato a rendere questa parola straniera e quindi incomprensibile. Quando il senso di inserire a scuola dei momenti per discutere dell’affettività, delle pari opportunità significasse solo trasmettere a tutti i bambini un semplice messaggio. Loro potranno essere qualsiasi cosa vorranno e andrà bene senza timore della società. C’era l’occasione per parlare di rispetto per se stessi e per gli altri, del proprio corpo attraverso l‘educazione sessuale e dei sentimenti altrui.  

Molte associazioni hanno deviato l’obiettivo di questo progetto convincendo l’opinione pubblica e tutto è andato in fumo.

Toccando i modelli di genere, si tocca il modello di famiglia che ne deriva, definito ancora per tanti “patriarcale”. Stiamo anche parlando di discriminazione, di razzismo, di omofobia. Anche perché l’orientamento sessuale non è una scelta ma un modo di essere.

Sono temi sensibili che non possiamo delegare solo alla famiglia ma dobbiamo farcene carico fin dalle prime agenzie educative. Si tratta della negazione di un principio basico e non possiamo ignorarlo. Ci vuole un’opera di prevenzione massiccia che deve coinvolgere tutte le scuole.

Decostruire gli stereotipi non significa mettersi lo smalto ma significa solo lasciarlo fare a chi ne ha voglia, poco importa che sia un uomo, una donna o un transessuale.

Pensiamo a tutti quei ragazzi vittime di bullismo (e sono tanti) che decidono di suicidarsi perché feriti per il proprio aspetto, perché sensibili, o perché indossano dei pantaloni rosa. Come Andrea Spezzacatena che aveva 15 anni quando si è impiccato perché denominato “il ragazzo con i pantaloni rosa”. 

Siamo un paese in cui il sindaco di una grande città ha vietato dei libri per bambini. Questo dimostra che a livello educativo, dobbiamo ancora fare parecchia strada. 

L’educazione di genere non si improvvisa, bisogna formarsi e studiare. Dobbiamo affidarci a persone competenti.

Un esempio è il progetto il gioco del rispetto. Nasce nel 2013 per le scuole da un team di lavoro multidisciplinare, composto da una psicologa, una consulente di comunicazione e un’insegnante. Diverse competenze hanno lavorato insieme, accomunate dalla stessa sensibilità per il tema dell’equilibrio e del rispetto tra i generi. Il gioco consiste nell’insegnare ai bambini che maschi e femmine possono scambiarsi professioni e ruoli sociali. Lo fa con “La storia di Red & Blue”, per immaginare rapporti solidali tra generi, in cui ognuno è libero di seguire il proprio talento, un memory speciale, per imparare che uomini e donne hanno pari opportunità di fare le stesse cose, anche se sono diversi tra loro e un puzzle che ti fa imparare che astronauta può anche avere l’apostrofo!

Per questo gioco, a Trieste ci fu un’ondata di allarmismo e parecchi genitori hanno ritirato i figli dalle scuole dell’infanzia.

Se siamo un Paese in cui parlare di rispetto ai bambini crea caos e indignazione, dobbiamo attivarci.

L’educazione di genere e la pedagogia di genere sono ambiti che dovrebbero far parte del bagaglio formativo di tutti i professionisti dell’educazione, per le loro potenzialità di trasformazione culturale e sociale.

Qui trovate il mio testo “Dalla parte dell’educazione”

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Annalisa Falcone
Sono un’educatrice e pedagogista. Non potrei immaginarmi a vivere felicemente senza questa meravigliosa e faticosa professione. Adoro leggere e la pedagogia è la mia passione più grande. Ho studiato e lavorato a Milano, Bologna e ad Alicante, piccolo e piacevole paese a sud della Spagna. Faccende di cuore mi hanno portato nel 2015 nell’affascinante Londra.

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