Educare alla pena. Il lavoro di un educatore in un carcere minorile.

Ho sempre avuto un  forte interesse verso il carcere. Non è facile approfondire il ruolo dell’educazione negli istituti penitenziari, c’è poca letteratura sull’argomento e le università sembra si dimentichino di questa utenza.

Per questo motivo, ho intervistato Myriam Barrale che da 8 anni lavora nell’istituto penale minorile di Palermo, per approfondire il nostro ruolo in un contesto del genere. Dalla nostra chiacchierata, sono emerse riflessioni notevoli che ritengo doveroso condividire. 

L’educatore in un carcere minorile è inquadrato come funzionario della professionalità pedagogica, per quanto riguarda il dipartimento della giustizia minorile di comunità. La denominazione di “Comunità” è stata inserita un paio di anni fa, in seguito a una riforma della giustizia che, tra le altre cose, ha ampliato l’età di competenza della giustizia minorile. Fino al 2014, infatti, negli istituti penali minorili si trovavano minori e giovani adulti di età compresa tra i 14 e i 21 anni. Ovvero quei ragazzi che avevano commesso il reato da minore (ad esempio fino a 18 anni meno un giorno) che rimanevano di competenza minorile fino al compimento del 21esimo anno di età. Dal 2014, si è ampliata la fascia di età di riferimento fino al 25esimo anno di età, quindi ad oggi all’interno delle carceri minorili si trovano ragazzi di età compresa tra i 14 (età minima imputabile per l’ordinamento giuridico italiano) e i 25 anni.

Il carcere minorile, dal legislatore, è considerata l’ultima risposta possibile per i minori, per i quali i vari interventi educativi, come l’inserimento in comunità non hanno funzionato. La carcerazione minorile è una misura residuale, quando tutte le altre azioni hanno avuto un esito negativo.

Come recita l’articolo 27 della Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere è una misura punitiva ma anche uno strumento di ri-educazione, e in campo minorile forse dovremmo dire di educazione.

Eliminare la percentuale di recidiva è il fine più elevato del carcere e per questo la figura dell’educatore è stata inserita all’inizio del novecento negli istituti penitenziari minorili. È una istituzione totale che porta con sé tutto il dolore, la sofferenza e le difficoltà che comportano. Il carcere viene considerato dal legislatore come un mezzo che incida il meno possibile in modo negativo sulla crescita dei minori autori di reato.

Anche per questo la polizia penitenziaria che ci lavora è specializzata nel trattamento minorile e non porta la divisa, per non contribuire alla spersonalizzazione dei minori ristretti ed la stigmatizzazione.

L’educatore rappresenta l’elemento di accordo di tutta questa complessità. Tra la realtà esterna vissuta dagli utenti prima dell’ingresso in carcere e ciò che accade in ambiente detentivo. Lavora in equipe con psicologi e assistenti sociali e il lavoro quotidiano di cura è uno dei suoi compiti.

L’educatore accompagna il minore nell’esperienza detentiva, dall’inserimento nella struttura spiegandone il funzionamento e le regole, alla quotidianità detentiva, sostenendo gli utenti nella gestione della vita in carcere. Cura i rapporti con la famiglia in collaborazione con l’assistente sociale, e soprattutto sostiene il minore nel percorso di revisione critica del reato commesso.

Da una parte la crescita dei minori aiuta. C’è una vera e propria maturazione fisica che da una parte aiuta la presa di consapevolezza di sè. Delle proprie risorse, del poter sperimentare in un luogo protetto una via possibile d’uscita.

L’educatore ha un compito di cura, in un contesto in cui sicurezza e contenimento sono le dimensioni privilegiate. 

Se nella relazione educativa il controllo diventa la sfera predominante, conquistare la fiducia dell’utente è impossibile. Il rapporto educatore/detenuto si inserisce dentro una dimensione superiore in cui entrambi devono rispondere a delle regole. Ci sono dei ruoli rigidi. Chi ha il compito di prendersi cura e chi di vivere in carcere perché ha commesso un reato.

Costruire la relazione educativa all’interno di una istituzione totale necessita prima di tutto di una visione allargata, che permette di guardare l’utente come persona, senza dimenticare il contesto nel quale ci si trova e il mandato istituzionale del nostro ruolo educativo.

La cura quotidiana, la presenza, l’esservi, aiutano nella costruzione della relazione di fiducia e possono restituire senso alla pena attraverso uno sguardo “altro” che offra nuove opportunità.

Ci si prende cura non solo del minore ristretto ma si lavora anche in modo indiretto in favore delle vittime, della società. Si lavora con qualcuno che ha tolto una vita, che ha fatto un danno grave ad una autorità, a dei familiari che hanno perso una persona cara. L’educatore deve tutelare non solo l’utente ma anche la vittima e le persone che hanno subito una perdita.

La giustizia riparativa può aiutare questo processo. Il reato provoca sofferenza e dolore e richiede da parte del minore o giovane, l’attivazione di forme di riparazione del danno provocato. Non si tratta solo di “chi merita di essere punito”, bensì “chi soffre” e “cosa può essere fatto per riparare il danno”Ad esempio può accadere che il detenuto maturi la decisione di voler chiedere scusa alle vittime, se la situazione lo permette, si può avviare un processo per farlo davvero. Ad esempio, il comune di Palermo ha un ufficio di mediazione penale e l’autorità giudiziaria può richiederne l’intervento. I mediatori prendono in carico il caso e si esplora la possibilità di fare un percorso di mediazione con la vittima. A quest’ultima viene proposto un percorso che può portare all’incontro con il detenuto.

È un processo e un gesto di una potenza notevole. L’umanizzazione della vittima che potentemente ti connette con quello che hai fatto, e ti fa scattare la volontà di poter far qualcosa per rimediare.

In caso di reati per i quali la vittima non è disponibile, si può lavorare a una riparazione indiretta, come svolgere attività di volontariato in vari contesti o occuparsi dell’ambiente pubblico. Permettono al detenuto di vedere una sfera positiva nel suo percorso. È un primo passo importante.

Inoltre, davanti ad un reato effettuato da un minore, l’origine deviante è multifattoriale. Se pensiamo a tutto ciò che ha fare l’adolescenza, l’opposizione, i contesti territoriali sociali che possono essere devastati. La povertà culturale che non vede altre alternative. Ci sono intere famiglie devianti, in cui i minorivivono la quotidianità con opportunità limitate, o davanti ad un degrado umano elevato lanciano un sos enorme commettendo dei reati. Oltre alla mera devianza, i fattori in considerazione sono tanti.

Lavorare in termini di educazione, diventa essenziale.

Per questo, il trattamento rieducativo minorile ruota attorno ad alcuni fondamentali elementi. Fra cui la scuola. Quella elementare per l’alfabetizzazione per i ragazzi stranieri, la scuola media per permettere a tutti di prendere la licenza media, e in alcuni casi anche un istituto professionale. L’educatore qui si occupa di gestire il rapporto con i professori e comprendere le difficoltà incontrate e i successi raggiunti.

A questo si aggiungono le varie attività gestite da professionisti esterni. Un modo come ricerca di significato del tempo trascorso in carcere.  Dare un senso alla pena detentiva è essenziale per sconfiggere la percentuale recidiva.

La pena distruttiva non serve né al detenuto che appena uscito dal carcere torna a delinquere, né alla società che deve puntare ad una comunità in cui il rispetto per l’altro torni alla base dei rapporti umani.

Anche gli apprendistati lavorativi hanno una forte valenza simbolica e pratica. Il lavoro che da (cambiare) dignità alla persona e la inserisce in un contesto sociale e normalizzante.

Imparare una professione, che al termine della pena, può dare la possibilità di una vita all’interno delle norme sociali diventa un pezzo importante della vita in carcere.

Ad esempio nel carcere minorile di Palermo, all’interno del complesso ma al di fuori della zona detentiva, si trova un biscottificio gestito dalla cooperativa sociale “Rigenerazioni”. I ragazzi hanno imparato a fare i biscotti bio con delle farine siciliane antiche, i mandarini biologici coltivati nei terreni confiscati alla mafia e fanno i biscotti agli agrumi, zenzero e limone partecipando anche alla fase creativa dolciaria. Questa esperienza restituisce senso alla pena e i giovani coinvolti, oltre a sperimentare in prima persona la possibilità di lavorare onestamente ed essere retribuiti, partecipano anche alle fasi creative. A San Valentino, ad esempio, hanno ideato un cioccolatino all’arancia a forma di cuore, chiamati “Iubi” che in rumeno significa “amore mio”, pensando alle famiglie lontane.

Si lavora alla revisione critica, creando un percorso di crescita e progettando il reinserimento, l’obiettivo finale della pena detentiva.

Sarebbero preziose maggiori risorse e collaborazioni territoriali per la creazione di borse lavoro. È una fase delicata perché si fanno i conti anche con i pregiudizi della gente e le barriere culturali. È necessario un lavoro sul territorio, di prevenzione nei quartieri così da delimitare la devianza minorile e accogliere chi ha sbagliato e cerca di porre rimedio ai suoi errori.  

Un lavoro educativo e prevenzione delicato ma essenziale. Non solo per i detenuti ma per la società intera.

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Annalisa Falcone
Sono un’educatrice e pedagogista. Non potrei immaginarmi a vivere felicemente senza questa meravigliosa e faticosa professione. Adoro leggere e la pedagogia è la mia passione più grande. Ho studiato e lavorato a Milano, Bologna e ad Alicante, piccolo e piacevole paese a sud della Spagna. Faccende di cuore mi hanno portato nel 2015 nell’affascinante Londra.

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