Coraggio e laurea in valigia: direzione Londra!

Quando ho prenotato il volo solo andata, ero elettrizzata, impaurita ma anche tanto emozionata. 

Non ho scelto Londra come fuga, maledicendo tutto ciò che fosse italiano. Dopo due anni e mezzo di distanza, io e il mio allora fidanzato, ora marito, potevamo vivere nella stessa città! Ebbene sì, ho scelto la capitale inglese per il motivo più vecchio del mondo: il cuore.

Fra i due, era lui in una posizione lavorativa più stabile, soprattutto dal punto di vista economico, e insieme abbiamo deciso che anch’io avrei potuto fare questo tipo di esperienza. 

Questo non mi ha portato a sottovalutare il mio lavoro, anzi se in Italia la mia situazione lavorativa era in crescita, a Londra l’incertezza era maggioritaria.

Come salutare amici, famiglia e con un po’ di incoscienza mettere le lacrime, un po’ di coraggio, tutti i miei risparmi in valigia, e prendere l’aereo.

Per la terza volta in vita mia, decidevo di cambiare città e soprattutto nazione, cultura e lingua. Farlo con il fidanzato vicino comporta dei vantaggi, ma ho sempre considerato l’indipendenza e il mio lavoro come priorità supreme. Per cui ero parecchio spaventata.

Il primo lavoro l’ho trovato grazie al mio CV e forse alla mia scaltrezza nei cercare per bene fra gli annunci online. Tutor per un bambino disabile per una famiglia privata con contratto regolare. Mi occupavo di tutto ciò che ruotava al bambino, per cui curavo i rapporti con le insegnanti, decidevo le attività giornaliere da fare, il materiale da usare. Stilai un progetto specifico in accordo con gli altri specialisti, in questo caso con altre due logopediste.

All’epoca, era un lavoro perfetto perché conciliava con la mia scuola di inglese ma questa solitudine mi stava stretta.

Anche dal punto di vista sociale. Il primo periodo è stato caratterizzato dalle tenebre. La mia prima amica arrivò dopo 9 mesi e credetemi che per esser una super introversa, mi ero anche impegnata a socializzare !

Avevo dei momenti di forte sconforto. Pensavo al mio lavoro in Italia, a tutto quello che avevo costruito che qui sembrava non bastare.

Sapevo di essere in grado di fare il mio lavoro, e come conseguenza della mia solitudine lavorativa, su ogni differenza educativa che notavano mi confrontavo con il consorte. Informatico e molto lontano dalle riflessioni di una pedagogista. Ben consapevole delle possibilità della comunicazione online mi lanciò una domanda.

 “Perché invece di sfogarti con me che non ne capisco nulla, non metti su un blog?”, “Ma figurati se alle persone interessa quello che penso io”  era la mia risposta.

Convinta e decisa.

Il dubbio di non essere abbastanza brava si era impossessato di me. Impiegai un anno a convincermi del tutto e a tentare di mescolare i miei più grandi interessi: la scrittura e la pedagogia.

 Ho trascorso un anno a guardare la prima pagina vuota del mio blog sperando di trovarci anche un po’ di coraggio nell’espormi.

Intanto, mi presi una brutta influenza e scoprí ancora di più la solitudine dell’essere expat. Quando il tuo fidanzato e l’unica amica sono fuori Londra, e il tuo elenco dei numeri di emergenza è già terminato, puoi solo trascinarti in farmacia anche se ci sono 2 gradi, e prepararti la minestrina da sola. Ecco cosa vuol dire vivere in un paese in cui nessuno ti aiuta quando hai bisogno di un sostegno.

Le mie crisi di solitudine galoppavano in fretta e il lavoro iniziava a starmi stretto. Il mio inglese aveva raggiunto un buon livello da poter provare l’assunzione nelle nursery.

Detto, fatto.

Iniziai a fare lezioni private per prepararmi ai colloqui. Per esser pronta e saper esporre al meglio la mia professionalità in una lingua che non era la mia. Preparai il mio cv, chiedendo consigli ma soprattutto informandomi online. 

I primi colloqui furono lunghissimi e ricchi di domande particolari e specifiche, di cui ad alcune risposi con un sincero “I don’t know”.

Insomma, ci provavo con tutte le mie forze.

 Non accettavano la mia laurea italiana e così mi ritrovavo a buttare al vento tutta l’esperienza in Italia. Io che ho iniziato a lavorare a 18 anni, in questo paese ero una tabula rasa.

Con il passare delle settimane, qualche offerta iniziò ad arrivare ma rifiutai le prime 4 proposte. Perché la qualità era mediocre ed ero sicura che Londra potesse offrirmi di più. Soprattutto, io meritavo un servizio valido! 

Vietato poi lamentarsi con gli amici in Italia. Perché agli occhi degli altri mi sembrava di essere solo una privilegiata. In quel momento, ero proprio l’esempio vivente di come all’estero, una casa, un lavoro, l’integrazione sociale e un branco di amici ti aspettino calorosi all’aeroporto. Proprio perchè straniera, tutto deve essere guadagnato e meritato. I regali, in caso, te li fanno i genitori quando torni per i weekend.

Iniziai a fare lezioni di italiano a dei bambini, creando anche un progetto e un laboratorio per la fascia d’età 3-5 anni. Insomma, dovevo lavorare e quella mi sembrava una buona alternativa per questo momento di transizione.

I colloqui continuavano e io diventano più brava. Più sicura con il mio inglese, più scaltra con le domande complesse.

Studiavo tanto, e i documentari della BBC sui reali inglesi aiutavano la mia comprensione. Ero diventata una super esperta della cara Betta e di tutti i reali fra figli, nipoti e cugini. Per questo, ho imparato anch’io ad apprezzarli. 

Mi innamorai di una nursery Montessori ma non passai lo step finale. In fin dei conti, nell’ufficio della manager avevo intravisto una pila altissima di cv, le possibilità di esser scartata erano tante.  

Mi feci un bel pianto, andai a Covent Garden e con il sottofondo di quei violinisti magici, capii che stava iniziando a diventare una ricerca parecchio difficile, ma ero convinta che ne sarebbe saltato fuori qualcosa di valoroso.

Ne ero sicura.

Così fu. Una compagnia che seguiva il metodo Montessori mi chiamò per offrirmi un lavoro. Ricordo ancora i salti di gioia, perché l’atmosfera che si respirava in quelle classi era davvero piacevole. Gli inizi furoni tosti ma andavo al lavoro saltellando. Stavo imparando tanto, una nuova routine, un modo differente di lavorare, di fare programmazione. Un linguaggio professionale diverso, colleghi internazionali, culture miste come il tipo di educazione scelto.

Colleghe calorose, divento amica di alcune ragazze che mi spronano a chiedere delle condizioni contrattuali migliori. Lotto, discuto, faccio un meeting con una voce sicura e consapevole di quanto le mie richieste fossero corrette. Le loro repliche si basavano su “Non hai esperienza in UK”, i tuoi studi sono solo italiani.

Trovammo il compromesso: cambio di contratto ottenuto ma sarei dovuta andare in un’altra filiale perché c’era più necessità.  Triste ma soddisfatta di aver lottato per i miei diritti.

Per cui si inizia di nuovo. Cambio di nuovo in pochi mesi. Fatico con i colleghi e la lingua straniera non aiuta. Mi ripeto che nonostante non mi sentissi ancora a casa, ero capace di fare il mio lavoro e lo avrei dimostrato. Ogni giorno.

I mesi trascorrevano e le mie soddisfazioni erano ancora traballanti ma ero decisa a continuare. Ci fu un cambio ai piani alti che ebbe forti conseguenze sulla qualità del servizio. Tutto calò drasticamente. Parlai, feci sentire il mio parere, avanzai delle alternative. Non avevo più 2 braccia ma 20, era una lotta perenne con tutto. Dovevo trovare un compromesso per la mia salute mentale. Tornavo a casa stanchissima e delusa. Un giorno, due, sempre.

Al motto di “I live in London”, e di tutto ciò che questa città potesse offrirmi, decisi che dovevo trovare un altro posto.

Con una buona dose di autostima, e il mio “Sono brava, so fare per bene il mio lavoro”, iniziai a cercare lavoro.

Casi fortuiti mi fecero incontrare le mie ex colleghe e soprattutto la mia vecchia manager, quella che mi propose di cambiare filiale. Mi offriva di nuovo il posto, nella nursery che adoravo. Ero molto combattuta, ma dentro di me decisi che avrei dovuto andare avanti e questo significava anche cambiare compagnia. Ringraziai con gentilezza e incrociai le dita nella speranza che quella fosse la scelta giusta.

Mi rimisi a fare i colloqui perdendo il conto di quante nursery visitavo. È stata una corsa perenne e stressante. Mi presero tutte. Avevo davanti 10 proposte di lavoro e dovevo scegliere.

Valutai tutte le variabili: salario, vicinanza, qualità e soprattutto ascoltando la parte più irrazionale. I miei stati d’animo rispetto a quel luogo.

Decisi per la nursery che mi fece battere il cuore a suon di una qualità dell’architettura che non avevo mai incontrato, materiali notevoli con un rapporto educatori-bambini al di sopra tutte le mie aspettative, e tutti i colleghi che mi sorridevano. Esattamente il posto con il salario più basso ma vicino casa. In tutta questa frenesia, avevo bisogno di posto familiare.

Decisa e felice iniziai la mia esperienza nella nursery in cui attualmente lavoro e qui comincia un’altra storia.

Cambiare nazione è tosta e soprattutto bisogna modificare i nostri parametri di giudizio. Un nuovo paese vuol dire anche una cultura differente e un sistema scolastico che non ha somiglianze con il nostro. Per questo, i paragoni con tutte le convizioni con cui siamo cresciute servono a poco e le similitudini sono inutili.

Significa cambiare sguardo, diventare più ricchi senza far in modo che lo stereotipo si faccia troppo spazio.

Se penso a tutti i pianti fatti perché mi mancava casa mia, agli ostacoli superati e anzi presi per le corna e fatti collassare. Londra mi ha resa più forte, senza dubbi.

Sono anche cresciuta anagraficamente, ma so che il mio trasferimento inglese ha dato un forte slancio alla mia crescita personale. E questo non vuol dire che ogni giorno è meno difficile. Ma che ogni giorno sono un po’ più capace.

Anche dal punto di vista professionale. Ho imparato a educare usando la voce bassa, a fare documentazione in modo differente, a conoscere un modello educativo diverso, e una cultura basata sulla sicurezza essenziale. Il pensiero di svolgere in una lingua straniera, una professione che si basa sulla relazione, e farlo anche abbastanza bene (almeno spero), mi riempie di soddisfazione.

Trasferirsi vuol dire anche far proprio il sentimento della mancanza di casa ma anchefar propri una serie infinita di modi di pensare e di vivere.

Il mio elenco dei numeri di emergenza è cresciuto, come le mie amiche inglesi. Come la mia consapevolezza di esser finalmente serena e felice. Mi alzo ancora con la voglia di abbracciare mia nipote e mangiare la focaccia del panificio del mio paesino, ma ho imparato l’importanza dell’ettesa. Dei tentativi in cucina, delle chiamate Skype, dei disegni in valigia.

Insomma, almeno per me ne vale ancora la pena.

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Annalisa Falcone
Sono un’educatrice e pedagogista. Non potrei immaginarmi a vivere felicemente senza questa meravigliosa e faticosa professione. Adoro leggere e la pedagogia è la mia passione più grande. Ho studiato e lavorato a Milano, Bologna e ad Alicante, piccolo e piacevole paese a sud della Spagna. Faccende di cuore mi hanno portato nel 2015 nell’affascinante Londra.

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