Siamo invasi da narrazioni tossiche, in cui sembra ci sia una gara a colpire chi appare diverso da noi.
Come professionisti dobbiamo sentirci coinvolti, promuovere la coesione sociale, i rapporti con e fra il territorio. Essere dei facilitatori delle relazioni. Considerando il ruolo che ci siamo scelti, è uno dei nostri compiti ma non basta.
Inutile sommergere la scuola italiana di mille responsabilità, è troppo impegnata a tenere in piedi i muri e i tetti dei suoi edifici. Perché per quanti sforzi faccia, e ci sono valorosi esempi, è un servizio tanto importante quanto sovraccarico di compiti. Ovunque la si guardi.
Siamo tutti responsabili, per questo bisogna espandere il concetto di “comunità educante”.
La comunità si crea gettando le basi della comprensione univoca. Quella per la persona disabile, a cui è riservato il parcheggio vicino agli ingressi delle strutture. Si anche quelli che non hanno problemi a camminare. Per l’ex carcerato che cerca lavoro. Per il ragazzo adolescenze che fa le “bravate” ed è doveroso seguirlo nel suo cammimo di crescita. Come genitori, educatori. Come adulti.
È una comunità quando si costruisce una rete di accoglienza allargata.
In cui c’è curiosità reciproca, quando domandiamo per conoscere le storie altrui, che sia per la collega o per il compagno di banco. Quando si fonda un territorio che ci accompagni a conoscere la storia del nostro paese, delle nostre istituzioni e a rispettarla. Imparando, e promuovendo valori di democrazia. Quella reale e concreta.
Dobbiamo fare in modo che un’ondata di educazione ci pervadi, in cui la convivenza plurietnica, pluriculturale, plurireligiosa, plurilingue, plurinazionale appartiene e sempre più apparterrà, alla normalità, non all’eccezione.
In cui l’empatia diventi il fulcro centrale di qualsiasi relazione.
Chi ha imparato una seconda lingua, può comprendere forse di più questo pensiero. Cambiare lingua ti permette di fare un allenamento quotidiano di immedesimazione nei pensieri e nelle ragioni dell’altro perché – come scrisse Ivan Illich – aiuta a “ripristinare, nelle nostre menti prima di tutto, con una solida base storica di quel che è stato e non di quel che potrebbe essere, la multiforme varietà del mondo”.
Non solo quando si verifica un episodio particolare, vedi i numerosi eventi di razzismo di questi mesi.
Primo Levi, prima di morire, ha affermato:
“C’è ancora un fascismo, non necessariamente identico a quello del passato. C’è un nuovo verbo: non siamo tutti uguali, non tutti abbiamo gli stessi diritti. Dove questo verbo attecchisce, in fondo c’è il lager”.
Parlava di un verbo che attecchisce ed è a partire dalle parole che usiamo dobbiamo costruire il nostro modo di educare e comunicare. Come professionisti della cura e dunque anche del rispetto dell’altro, dobbiamo farci carico del linguaggio che scegliamo e di quanto il nostro comportamento lo rispecchi.
Si devono creare le condizioni culturali, di consapevolezza in cui inserire l’evento attraverso un progetto più globale. Una cornice più ampia.
Bisogna costruire conoscenza attraverso dei dati. La matematica ci può aiutare a capire l’immigrazione, la statistica può farci comprendere cosa si nasconde dietro un fenomeno.
Cooperiamo per delle città di collaborazione, che siano in grado di rispondere alle questioni complesse della nostra epoca.
Partiamo dalle leggi razziali, quest’anno decade l’ottantesimo anniversario. Nel 1938, a migliaia di studenti e insegnanti fu vietato di entrare nella scuola pubblica perché ebrei. Iniziamo da un racconto storico delle differenze, e questo forse aiuterebbe a stemperare i toni. Parliamo di minorazione storiche e linguistiche come nazione ha una lunga storia di migrazioni.
Ricordiamo i 70 anni dalla nostra bellissima Costituzione. Riempiamo le strade di questi codici!
Mentre raccontiamo delle nostre leggi, facciamole rispettare. Manteniamo in legalità il numero di partecipanti ad un concerto, facciamo manuntenzione ai ponti delle nostre autostrade, costruiamo le scuole nuove seguendo le normative.
Narriamo i 50 anni di Martin luther King e del suo grande sogno. “I have a dream” affermava. 50 anni dopo c’è ancora tanto da fare. Parliamo di personaggi storici valorosi fin dalla prima elementare, educhiamo ad un pensiero critico.
Raccontiamo come e perché siamo giunti alla Dichiarazione universale dei diritti umani, in cui 192 nazioni sottoscrissero unanime il concetto “Tutti sono eguali dinanzi alla legge, tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione, come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione”.
Assumiamoci la responsabilità di creare una cultura aperta e coerente con la nostra Costituzione.
Contribuiamo a raccontare ciò che funziona, e le realtà che lavorano in questa direzione. Promuoviamo benessere sociale, significa anche investire sul nostro futuro.
Non è un pensiero così diffuso, se pensiamo a tutta la politica nera degli ultimi anni in cui diviene più facile addossare la colpa al nostro vicino. Se questo, nero, slovacco e disabile. Poco ha importanza.
Educhiamo ad andare oltre la semplificazione.
Formiamoci per fare ciò che questo accada. Un testo valido che consiglio a tutti è “La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri” cui ci sono direttive pratiche che gli insegnanti ed educatori possono seguire.
Abbiamo bisogno di ricercatori, attivatori ed esploratori e ad un’educazione che sappia aprire e non rinchiudere menti e orizzonti. Una formazione che non cataloghizzi ma includa.
Schieriamoci per assicurare pari dignità, in un contesto multietnico che mette tutti nella posizione di conoscere meglio il mondo e di riflettere un po’ più su se stessi.
Possiamo dividere le grandi questioni, in piccoli segmenti e analizzare il nostro modo di vedere la realtà. Indossare un altro paio di occhiali per osservare questo periodo storico, ci permette di approfondire punti di vista e pensieri mai inesplorati.
Al lavoro, mi capita quasi tutti i giorni e credetemi che è uno dei lati che più mi piacciono del mio periodo a Londra.
Questo significa innanzitutto prenderci la responsabilità come adulti. Educare attraverso l’esempio, fare attenzione, scegliere la comunità invece che dal singolo. Smettiamola di pensare da leader, le case non si costruiscono dal tetto. Accogliamo un’educazione al benessere pubblico, e dirigiamo le nostre azioni verso ciò che potregge se stessi e la collettività.
Educhiamo al rispetto, tramite l’esempio quotidiano e concreto. Ognuno deve fare la propria parte di cittaddino educante e prendersi la porzione personale di formazione che gli spetta. Come direttore della scuola, come manager di un esercizio commerciale e cantante, come cittadino.
Non è facile, significa essere in grado di mettersi in discussione e questo non è da tutti ma serve allenarsi. Comporta preparazione e accogliere ciò che non conosciamo, significa aprirsi agli imprevisti.
Cooperazione con colleghe e colleghi, apertura all’esterno e una buona dose di coraggio, perché ci sono mille ostacoli da affrontare. Serve partire dall’asilo nido, a sostenere la genitorialità. Mettendo anche qualche limite.
Ancor più difficile è dimostrare a chi è fuori dalla scuola, quanto sia essenziale questo processo. Ma è una sfida che vale la pena affrontare.
Se questo articolo ti è piaciuto e vuoi rimanere aggiornato sui prossimi in uscita ma anche per conoscere e raccontare storie e progetti su tematiche pedagogiche e sociali, puoi mettere un like sulla mia pagina facebook.com/diariodiuneducatrice
[facebook_likebox case_type=”like_box_button” fbl_id=”8″][/facebook_likebox]
[instagram-feed]