“Annalisa perché sei cosi silenziosa?”
Questa domanda me la sono sentita rivolgere una marea di volte in numerose occasioni da familiari, amici, professori. Sempre con le migliori intenzioni, perché chi mi circonda vuole conoscere il mio stato d’animo, insomma il motivo per cui me ne sto in disparte. Questo fin da quando ho memoria. Le risposte si sono sempre accavallate e modificate con il tempo, ma devo essere sincera, non c’è mai una reale motivazione. Meglio dire, è il mio modo di essere. Sono introversa.
Come una buona parte della popolazione mondiale.
Per questo rimango in silenzio, perché sto pensando, ascoltando, formulando il mio pensiero, o molto più semplicemente sto affrontando la realtà attraverso come lo reputo più opportuno.
Con l’apertura del blog, sono stata costretta a mettere faccia e voce in quello che dicevo, e molti mi chiedono se mi sono trasformata in estroversa. No, il carattere riflessivo è sempre al solito posto, ho solo scoperto un nuovo modo di mostrare quello che so fare.
Carl Jung, uno psicologo del Novecento, ha introdotto le espressioni “introverso” ed “estroverso” per descrivere differenti tipi di personalità. Jung per primo afferma che dobbiamo immaginare questi tratti lungo un righello, alcune persone si posizionano alle due estremità, altre invece cadono al centro, e gli psicologi li chiamano “ambiversi”, un miscuglio dei due tratti.
Non c’è un orientamento migliore dell’altro ma ammettiamo che viviamo in una società dove gli estroversi sono più avvantaggiati.
Pensiamo a scuola, dove lo spirito di partecipazione è un criterio di valutazione. Squadre di docenti che inventano gare di tabelline, analisi logica, con la convinzione che tutti gli studenti si divertano. Eppure un alunno silenzioso può essere altrettanto coinvolto di uno vivace che risponde a ruota libera.
L’introversione è uno dei tratti della personalità più studiato, per questo sappiamo che introversi ed estroversi hanno un sistema nervoso diverso. Noi introversi tendiamo a essere nostro agio in situazioni di tranquillità, da soli e con la compagnia di pochi ristretti, siamo quelli che si nascondono quando i prof cercano le mani alzate, e viviamo il fare perenne come una costrizione. In una cultura fatta dal continuo produrre, questo atteggiamento può incontrare delle difficoltà.
Ricordiamoci che l’introversione non è un peso di cui liberarci, è una nostra caratteristica che dobbiamo accogliere e di cui esser contenti. Lo so, non è facile comprenderlo, io sono arrivata a questa conclusione solo ai tempi dell’università quando nel corso di filosofia dell’educazione, il prof si fermò un intero semestre a sottolineare il potere della timidezza, e finimmo di parlare anche dei benefici di essere introversi. Quasi non ci credevo. Non avevo sentito mai nessuno, prima di allora, fare questa affermazione.
Proprio questo fu il punto di partenza, nel mio percorso verso l’accettazione del mio modo di essere, e per questo ho cercato di essere un’educatrice che accanto al fare, predilige il riflettere.
Nella pratica come si concretizza?
Le strategie per trasformare l’introversione in un vantaggio sono molteplici, e dipende molto dall’età a cui facciamo riferimento.
Per la prima infanzia, innanzitutto consiglio di lasciare i bambini decidere le proprie tempistiche.
Significa che se qualcuno dovesse rimanere in disparte ad osservare i propri compagni, va bene, soprattutto nel periodo di ambientamento. Osservare ciò che sta accadendo in un luogo, in particolare se per il bambino è sconosciuto, è una modalità per comprendere cosa sta accadendo e se può e vuole partecipare. Per questo non sobbarchiamo loro di stimoli, progetti, laboratori e giochi. Possiamo chiedere se hanno voglia di fare una determinata attività, ma quando poniamo la domanda dobbiamo esser pronti ad accogliere anche il rifiuto come possibile risposta.
Lo so, noi educatori siamo gli operatori del continuo operare, ma alleniamoci anche a rimanere in attesa, perché il non-fare ha un significato massiccio.
Possiamo stare di fianco a loro e fare noi l’attività proposta, puzzle, travasi, le costruzioni, sono un modalità di avvicinamento valida. Così che i bambini possano sapere come funziona e cosa si può fare con quel materiale. Se non ci sono troppi rumori di sottofondo, è un’operazione che ha un effetto calmante pazzesco.
Inoltre, sono una grande fan dell’abbassamento globale del chiasso diventato ordinario nei servizi educativi. Educando al silenzio, come una modalità di apprendimento, i vantaggi sono davvero notevoli. L’ho raccontato qui.
Concediamo il tempo dell’attesa, del silenzio, senza nessun tipo di giudizio negativo. Lasciamo le ansie fuori dal nostro servizio, dando a loro le tempistiche personali nel rispondere ad un certo stimolo e ambiente.
Non facciamo sentire in colpa nessuno per questo tratto della personalità.
Oltretutto, conosciamo l’importanza dell’ambiente, e le possibili ripercussioni sugli stati d’animo dei bambini. Evitiamo luoghi con eccessive stimolazioni sensoriali, per cui colori accesi, ed esposizione di troppi giochi in un singolo spazio.
Riduciamo le richieste e anche le aspettative. Non proponiamo numerose alternative di fronte alle difficoltà, e arrendiamoci alle attività più semplici che spesso diventano le più efficaci. Il canto e la lettura di albi illustrati possono essere delle valide proposte di fronte ad uno stato d’animo introverso.
Due psicologi, Thomas e Chess, traducono questa influenza come goodness of fit, ovvero come l’ambiente può adeguarsi alle caratteristiche del bambino, incoraggiando il suo percorso verso il luogo prestabilito.
Per quanto riguarda la primaria (ed anche gradi più alti), molti insegnanti stanno cercando di migliorare i dibattiti in classe introducendo il think time o meglio wait time coniato dalla psicologa Rowe. Dopo aver posto la domanda, l’insegnante lascia agli studenti alcuni minuti di silenzio per pensare.
Inoltre ricordiamo che i motivi per non essere partecipativi in classe sono molti. L’apprendimento in grandi classi, non è ottimale per molti bambini.
L’ansia sociale rientra fra queste ragioni, la paura di fare la scelta sbagliata e sentirsi in imbarazzo. Molti introversi preferiscono, invece, semplicemente aspettare di avere qualcosa di significativo da dire, perché attribuiscono valore al contenuto delle nostre parole. Obbligare un bambino a parlare davanti alla classe senza avergli fornito gli strumenti adeguati, è un azzardo. Possiamo fargli fare pratica davanti ad un amico, e in caso di difficoltà, non forzialiamolo.
Bilanciamo i metodi di insegnamento in modo da andare incontro a tutti i bambini della classe. Perché i bambini introversi hanno soltanto uno stile di apprendimento differente, non sono malati.
Dobbiamo (e mi metto in prima linea su questo punto) trovare le modalità che ci facciano stare meglio nel condividere una vita sociale, o semplicemente i nostri pensieri. Al liceo, cercavo di prepararmi prima dei piccoli interventi sui temi che sarebbero stati affrontati. Tecnica che uso anche in UK, patria del public speaking. Se parlare davanti ad una grande platea nella mia lingua madre mi provoca ansia, figuratevi nella mia seconda lingua, eppure mi sono allenata e ho portato a casa il risultato.
Diventiamo un modello positivo salutando gli sconosciuti in modo sereno, andiamo al ritmo dei piccolini che ci circondano, senza fretta.
Spesso ci stupiamo del fatto che bambini introversi, “sboccino” diventando adulti più sicuri di sé. Questa metamorfosi può essere dovuta ad un percorso che il singolo può fare, imparando delle strategie sociali che lo aiutino a superare i momenti di disagio, ma spesso è l’ambiente circostante a cambiare. Da adulti si ha la possibilità di scegliere l’ambiente più appropriato per noi, le persone amiche.
Le ricerche condotte in un campo chiamato “compatibilità persona – ambiente” dimostrano che gli individui fioriscono quando sono impegnati in attività, ruoli o situazioni in armonia con la loro personalità. Vale anche l’inverso: i bambini smettono di apprendere quando si sentono minacciati sul piano emotivo.
I ricercatori hanno scoperto che la dedizione, il coinvolgimento in una certa attività e passione sono un ottimo modo per raggiungere il benessere interiore. Interessi e capacità sviluppate possono essere fonte di fiducia per tutti gli introversi.
Per scrivere questo articolo, ho raccolto una biografia specifica che si racchiude in due libri particolari.
Uno è “Quiet” , di Susan Cain, una delle fondatrici di Quiet Revolution, un’azienda per aiutare gli introversi di tutte le età. Raccontando anni di esperienza come consulente e il suo passaggio da una timidezza riluttante a una timidezza orgogliosa, Susan Cain accende un riflettore sugli introversi che sono fra di noi, spiegandone la forza e il ruolo nella nostra società.
Per quanto riguarda invece un supporto per tutti i piccolini, un buon libro è il suo secondo libro “Quiet power, i super poteri degli introversi”, una guida pensata appositamente per i bambini e gli adolescenti e per il loro mondo (la scuola, le attività sportive, la vita familiare, i rapporti con i coetanei), ricca di storie esemplari di introversi famosi, da Einstein a Beyoncé a Emma Watson, ma anche di strategie e consigli pratici per imparare a usare i “superpoteri” degli introversi e affrontare le sfide più difficili. Questo potete regalarlo dai 12- 13 anni in su.
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