Educare a parlare: intervista ad una logopedista

Fare educazione significa anche abbracciare una serie di aree e competenze delicate che non possono essere generalizzate, ma hanno bisogno di uno studio specifico e dunque del suo professionista di riferimento. Come ad esempio lo sviluppo del linguaggio, e per cui della figura del logopedista. Conosciamo l’importanza del lavoro di squadra, per questo ho voluto approfondire alcune questioni con una professionista, per fare chiarezza su alcune aree in cui spesso i pregiudizi e indifferenza sono i protagonisti. 

Ho scelto di intervistare Mariavittoria Vallarino, logopedista ormai da 20 anni, che ho avuto il piacere di conoscere a Londra. È specializzata nella riabilitazione del linguaggio dei bambini e in particolare nella sordità infantile. Ha conseguito la certificazione nell’ Auditory Verbal Therapy che si focalizza nel creare un’alleanza con i genitori per dar loro conoscenze e strategie per supportare il proprio figlio nello sviluppo del linguaggio. Vive in Scozia e ormai da 6 anni attraverso la teleriabilitazione segue famiglie in giro per il mondo.

Quando bisogna preoccuparsi di fronte ad un ritardo del linguaggio? 

Io dico sempre ai genitori di non preoccuparsi ma di occuparsi, perché la preoccupazione blocca, mentre l’occupazione è in grado di lavorare sulla difficoltà. Ogni volta che si ha un pensiero in relazione a qualcosa che non va, bisogna chiedere una consulenza ad una professionista. Nel caso di ritardo di linguaggio, ad una logopedista. Per fortuna, internet permette di contattare un logopedista in 24 ore, e richiedere una consulenza telefonica. Oppure localmente, si può chiedere al pediatra o scuola se hanno un contatto particolare. In Italia c’è la Federazione logopedisti italiani, che ha un elenco degli logopedisti. 

FLI https://fli.it/professionisti/

UK: https://www.asltip.com

Su un ritardo del linguaggio, tutti i logopedisti possono dare un parere adeguato, ma se è specializzato nell’infanzia può dare delle informazioni ancora più precise. La logopedia può iniziare precocemente, ci sono logopedisti che lavorano per problemi di deglutizione, per esempio durante l’allattamento, o per bambini che hanno il frenulo corto, o ancora per  prematuri, il fattore di rischio e più elevato e si inizia prestissimo la terapia. L’intervento precoce è quello che aiuta tantissimo i bambini a recuperare nel breve tempo possibile, per cui prima si inizia un sostegno, prima si vedranno dei risultati. Gli studi dicono che già da come un bambino comunica ad un anno, è dato importante per comprendere lo sviluppo futuro. In questo caso, è solo un logopedista che può fare uno screening completo. Non voglio fare una check list di cosa un bambino dovrebbe fare e dire nelle varie fasce d’età, perché non voglio attivare preoccupazione. Io consiglio al genitore di ascoltare il proprio istinto, ormai nella mia esperienza ventennale ho incontrato molti genitori che hanno deciso per un intervento tardivo perché rassicurati da altri professionisti con la tipica frase “Non preoccuparti, parlerà”. Questo è un approccio sbagliato. 

Nella mia esperienza, posso dire di aver riscontrato sentimenti ambivalenti come ansia e quasi paura verso la figura dei logopedisti. 

Tante famiglie hanno paura che venga fuori qualcosa, ma la paura blocca un’evoluzione, e la preoccupazione rimane. Questo atteggiamento ha ripercussioni anche nelle interazioni con il figlio, perché è sempre presente lo sguardo del “Forse c’è qualcosa che non va”. Quando contatti un logopedista, anche telefonicamente si può capire il quadro generale con una serie di domande. Ovviamente, sono informazioni che vanno verificate ma un professionista ha anche il potere di rassicurare i genitori, e da lì si inizia a ragionare in un altro modo. Dobbiamo spingere verso il contatto di un professionista. Il pediatra, l’otorino, gli insegnanti possono essere dei validi aiuti ma non sono specializzati nei ritardi del linguaggio, e per questo non riescono a dare un supporto concreto e serio. Il logopedista è il contatto da cercare. 

Quali sono le principali cause dei ritardi del linguaggio?

Le cause sono ancora sconosciute, ma ci sono i fattori di rischio: anamnesi familiare positiva, ovvero se nella storia familiare ci sono dei precedenti di ritardi del linguaggio, è più possibile riscontrare una difficoltà. A volte sono informazioni che non si hanno, perché fino a 40 anni fa non venivano nemmeno diagnosticati. Altri fattori di rischio sono il basso peso alla nascita, nascite premature, problemi uditivi che non significa solo sordità neurosensoriale ovvero i bambini che devono mettere protesi e l’impianto, ma sordità significa anche una sordità trasmissiva, cioè data dal catarro nell’orecchio che può portare alla perdita di 30-40-50 decibel. Siccome noi apprendiamo a parlare attraverso l’ascolto, se il bambino durante il periodo tra gli 8-9 mesi fino ai 2-3 anni ha delle otiti ricorrenti, e del catarro, che può essere anche asintomatico, l’esposizione al linguaggio è inferiore. È come imparare a parlare una lingua straniera con i tappi per le orecchie, si fa davvero molta fatica. Tutte le volte che una famiglia mi contatta, consiglio sempre un esame audiometrico che può essere fatto tramite la richiesta del pediatra. Quando c’è un ritardo del linguaggio è un esame che viene accettato dal sistema sanitario nazionale, oppure nei centri privati. È uno screening notevole, ho visto bambini rifiorire in un mese dopo che gli hanno liberato le orecchie. 

Come si può incoraggiare e sostenere lo sviluppo del linguaggio?

Io mi riferisco sempre al sito inglese www.hanen.org, un’associazione americana che si occupa di ritardi del linguaggio, e di guida ai genitori. Perché se il terapista in qualche modo insegna ai genitori nuove tecniche di supporto, i miglioramenti sono notevoli. C’è un libro scritto da loro in questo senso, in inglese “It takes 2 to talk”, mentre in italiano lo si trova con il titolo “Parlare, un gioco a due”. Questo è un valido riferimento, è un aiuto per osservare i bambini, capire in quale stadio si trovano, e che tecniche utilizzare con tantissimi esempi.

Partendo da questo supporto, si possono dire quali sono gli errori che vedo fare con più frequenza. Siccome la comunicazione è costituita da due partecipanti, quando uno dei due non partecipa, il genitore tende a parlare per tutti e due. Questo porta a dei monologhi, generalmente i bambini si arrendono e non provano più a parlare. Tra l’altro, i bambini si rendono conto che non sono dei bravi comunicatori, e i genitori pensano di insegnare qualcosa facendogli tantissime domande ma i quesiti annientano. Per cui sono frequenti richieste continue come “Vuoi l’acqua?, vuoi giocare con la palla? con il trenino?”. Più aumentano le domande, più i bambini si annientano. Per questo, prima di tutto i genitori devono imparare ad osservare i loro bambini. Le domande sono istintive, ma per questo sono necessarie delle sessioni di coaching con loro dove il professionista li aiuta a gestire la comunicazione. Ad esempio, mentre giocano con i bambini, li interrompo e faccio notare gli errori, perché non se ne rendono conto, è più forte di loro. Lo vedo in tutti i genitori, è una compensazione, preoccupazione verso ciò che manca. Più si inizia tardivamente la terapia,  più questa dinamica si consolida, più il bambino è terrorizzato, più i genitori sono abituati. È importante invece rompere questo meccanismo, perché magari i bambini non parlano, ma comunicano con piccole urla, o indicano. Bisogna osservare, aspettare, e ascoltare, perché dopo aver osservato, aspettato, generalmente i bambini ci provano, magari anche con un suono.

Quel vocalizzo guardando l’acqua, è il loro primo tentativo per dire acqua. Se invece continuiamo a parlare, lo perdiamo. Per questo le regole sono: osservare, aspettare e ascoltare.

Inoltre si devono evitare le domande e preferire i commenti. Soprattutto con i libri, con le domande “Cos’e questo?”, “Cosa fa?”, si carica di ansie la comunicazione, invece si preferiscono dei commenti come “Io vedo il bambino” o “Che buono”, insomma parlare con delle affermazioni, non con delle domande.

Poi bisogna dare il modello di comunicazione, io dico sempre ai genitori “Immaginate che i bambini abbiano un fumetto sulla testa e voi ci dovete mettere le parole, a livello del bambino”. Ad esempio, se il bambino non parla, l’obiettivo è una parola, se dice una parola, l’obiettivo sono due parole, e così si va a avanti. Se il bambino indica o vuole la palla, noi ci avviciniamo e diciamo “Palla”, così mostriamo al bambino come deve fare. 

Come superare le balbuzie in situazioni di stress?

Ci sono tante informazioni sbagliate sulle balbuzie. Intanto, a Londra, c’è uno dei migliori centri europei sulle balbuzie ovvero Michael Palin, dove hanno fatto diversi studi e sono davvero all’avanguardia. Per questo quando i genitori mi contattano, e sono a Londra, generalmente do questo riferimento. Danno anche linee guida al telefono. Se dico sempre ai genitori preoccupati di contattare un logopedista, in caso di balbuzie, questo deve avvenire assolutamente in direttissima. Intanto bisogna distinguere tra disfluenza e balbuzie, perché ci sono molti bambini che balbettano per un periodo della loro vita, quando sono piccoli ma poi passa. È quindi fondamentale individuare se si tratta davvero di una balbuzia reale, o solo una difficoltà passeggera. Questo lo può fare solo il logopedista esperto in balbuzie che sa individuare subito la differenza. In Italia, abbiamo un’eccellenza che si chiama Pier Giuseppe Carando (un logopedista di Torino) che ha scritto un libro bellissimo che si chiama “La balbuzia oggi”. Sono 4 libri differenti, uno per gli insegnanti, uno per i pediatri, uno per i logopediste, e uno per i genitori. È un supporto che consiglio davvero. Le balbuzie è un disordine del ritmo della parola, la persona sa cosa vuole dire ma non riesce a farlo a causa di arresti, prolungamenti, ripetizioni. Una persona balbetta se ripete i suoni (ad esempio la prima lettera, “B-b-b..buongiorno”, o la prima sillaba “Bu-bu-buongiorno”), o prolunga i suoni (buuuuuongiorno), o si blocca e non riesce a dire il suono(___buongiorno), e soprattutto se mentre fa queste cose ci sono dei segni fisici di sforzo e fatica, si vede una tensione delle labbra. Il bambino non balbetta se ripete delle parole intere, ad esempio, se dice “mamma, mamma, mamma, mi senti?”, se cambia delle parole all’interno della frase, se mette interiezioni nella frase (mamma, uhmm, ecco, io, mamma andiamo a casa), se ripete la sillaba due o tre volte ma senza sforzo (bu-bu-buongiorno). Ci sono molti bambini che balbettano per davvero per qualche settimana, ma poi per nell’80% di questi bambini, il disturbo scompare. La chiave, anche in questo caso, risiede nella capacità di ascolto del genitore. Si fa tantissimo counseling al genitore. Se il genitore è preoccupato deve correre dal professionista, perché questa preoccupazione è legata al fatto che questa difficoltà possa non essere passeggera. Può passare, ma può anche risolversi con la terapia della logopedista che ha consigliato delle tecniche specifiche (che nel libro citate prima trovate) sulle cose da fare o non fare. Questo tipo di balbuzie inizia dai 32 ai 66 mesi, si stabilizza verso i 6 anni età, spesso i segni sono precoci, e si intravedono verso i 3 anni di età. È importante che i genitori ricevino il giusto counseling, e capire cosa fare o non fare, o se ci troviamo di fronte ad una disfluenza passeggera, o una vera e propria balbuzia, le tecniche ora sono avanzatissime, si può guarire, si può imparare a gestirla. Ovviamente prima si inizia meglio è.

Cosa possono fare gli educatori di fronte ai ritardi del linguaggio?

L’educatore è una figura specializzata nell’infanzia, deve avere ben chiaro le tappe di sviluppo linguistiche, psicomotorie, cognitive, di gioco dei bambini con cui lavora. Nel momento in cui vede un ritardo, lì sicuramente può aiutare molto il bambino all’interno del servizio educativo. A scuola avviene anche la comunicazione con i pari, più spontanea e rilassata rispetto a quella che si svolge a casa con i genitori, perché detiene una componente emotiva, legata alle aspettative che la famiglia ha nei confronti del bambino. A scuola i bambini hanno molta più voglia di provare e sperimentare perché non hanno paura di fallire, perché farlo davanti ai genitori è più costoso emotivamente. A scuola sarebbe importante lavorare a piccoli gruppi dove è possibile, e fare dei giochi in cui ogni bambino ha il suo turno, perché rispettare i turni di parola è uno dei principi base della buona comunicazione. Poi tutte le tecniche che ci sono per i genitori, valgono anche qui. Per cui osservare e di dargli il modello. È un lavoro davvero importante se si riesce a farlo a scuola. Una delle aspetti che serve di più ai bambini è imparare la contrattazione nel gioco, molti bambini spesso sono passivi ma non perché sono bravi, ma perché non hanno il linguaggio per contrattare su un gioco, o per risolvere delle diatribe. In quel caso, quando si vede un bambino passivo, bisogna osservare le varie dinamiche, e aiutarlo a dargli un linguaggio per contrattare, o iniziare un gioco. Annotare se propone delle iniziative, ad esempio: “Ho un’idea!”, accettare una risposta negativa come quella positiva, o iniziare la negoziazione. Su questo argomento potremmo prolungarci parecchio. Consiglio sempre di prendere appunti con esempi specifici per una settimana di osservazione del bambino, per poi parlare con i genitori facendo esempi specifici.

Possiamo fare una specifica con le diverse fasce d’età. Ad esempio focalizzandoci la prima, mediamente la più critica, relativa ai 0-6 anni. 

Partiamo dal nido con la fase 0-2 anni, il bambino passa dal non parlare, ai 2 anni in cui dovrebbe raggiungere la fase combinatoria, ovvero mettere due parole insieme. Questo non significa che se non lo fa è un problema ma in generale, attorno ai 2 anni si raggiunge questo grado di linguaggio, ad esempio “Mamma acqua”. In questa fase, sono importanti le routine, l’uso delle canzoni, è stato notato che quando un bambino ascolta le canzoni e la musica è poi più attento all’ascolto delle parole e delle frasi. Si attiva l’attenzione, la musica è davvero un aiuto importante.

Poi la consistenza, ovvero usare più o meno le stesse parole ed espressioni, le frasi semplici possono aiutare l’apprendimento. Usare la consistenza nella fascia 0-2 anni, li aiuta a collegare la parola con il riferimento concreto, la situazione realistica. Ad esempio, se il bambino ha una scatola in mano, la vuole aprire e te la offre, e in quel momento si dice “Apri”, è molto facile che lui presto arrivi con la scatola e ti dica “Apri”. Perché ha visto la consistenza della ripetizione. Se invece gli si dice “Apro” “Dai apriamo”, “Ho aperto”, non è consistente e dunque è più difficile che lui capti quella parola lì e la sappia usare. Inoltre i libri sono uno strumento essenziale, prima si inizia un approccio felice con la lettura meglio è, sarebbe davvero utile se l’educatore riuscisse ad insegnare ai genitori o comunicare a loro quali sono i libri piaciuti al proprio figlio, fargli vedere come fare. Tutte le azioni volte a far introdurre la lettura, sono validi sostegni per il linguaggio. Inoltre, nel momento in cui ci dovessero essere delle difficoltà e si dovesse chiamare una logopedista, il gioco di squadra fra figure professionali diventa essenziale.

I risultati arrivano quando c’è uno scambio fra esperti, se genitori, educatori e logopedista si parlano allo stesso livello, ovvero ognuno considera la propria opinione con lo stesso valore dell’altro, i benefici saranno pazzeschi.

La logopedista ha bisogno degli input delle educatrici, per sapere cosa succede a scuola e non perdere fette importanti di informazioni. In Inghilterra, c’è la figura della speech therapist nelle scuole, mentre in Italia è ancora molto raro. Ma ogni volta che sono riuscita a collaborare con le scuole, è lì che avviene la magia, perché riesci ad ottimizzare tutto al dettaglio, ognuno fa la sua parte, il bambino non se ne accorge più di tanto perché diventa parte della suo routine. Di solito le insegnanti sono molto contente perché sanno come e cosa fare, la logopedista vede risultati molto più velocemente, i genitori di conseguenza. Tendenzialmente, vedo nelle educatrici in Italia un atteggiamento di difensiva, come se io dovessi insegnare qualcosa, ma cerco di rompere questo meccanismo. Di solito si ascolta molto, non esiste la ricetta logopedica ma delle tecniche con le specifiche necessità per uno specifico bambino che ha delle specifiche necessità. Noto che c’è la paura esser giudicati, ma la chiave è rompere un atteggiamento di supremazia e sentirci colleghi, e aiutarci. Quando funziona è davvero la svolta. 

Mentre per la fase successiva? Per la fase 2- 4 anni.

Se verso i 2 anni, notiamo che il bambino non ha la combinatoria, ovvero non unisce due parole insieme, dobbiamo iniziare ad osservarlo, a prendere delle note con degli esempi concreti, e cercare di capire anche il livello di attenzione. In questa fase, quando si può è importante dargli il modello dal suo punto di vista. Quando lo vediamo che strappa un gioco, insegnare a dire “Dammi questo”, insegnargli le regole della buona comunicazione. In questa fase, dai 2 ai 4 anni devono devono iniziare a parlare con le frasi perché il pensiero diventa più complesso, e le cose che vogliono dire diventano più articolate. Devono iniziare a seguire istruzioni più lunghe “Apri il cassetto e prendi il foglio”. Man mano che crescono, far diventare le richieste più complesse. Anche qui, prendere delle note è un valido supporto perché in questa fase c’è molta variabilità. Ci sono bambini che riescono a comunicare con un lessico forbito, altri che mostrano più difficoltà. In questo periodo deve crescere tantissimo il lessico sia in entrata che uscita, di solito imparano tantissime nuove parole a settimana (riesci a recuperare questo dato? ma senza sbattimenti). Dai 2 ai 3 anni non è fondamentale la correttezza dei suoni, è normale che il bambino non parli con tutti i suoni del linguaggio. Dai 2- 4 anni dobbiamo vedere che tutti i suoni dell’articolazione del linguaggio li impara gradualmente. Attorno ai 4 anni ha completato l’inventario fonetico, con la r italiana che è la più difficile in assoluto, c’è fino ai 6 anni per apprenderla. Anche qui le routine sono importanti, ed è corretto esporli ad una lessico vario, con aggettivi, preposizioni, parole, devono imparare la grammatica, flessione verbale, le domande, la negazione, gli aggettivi, gli opposti, la sintassi deve essere sempre più complicata, anche nel modo in cui giocano. Dal gioco simbolico arrivano poi a 4 anni a fare il Role-play, il gioco di fantasia.

Può aiutare il gioco nel piccolo gruppo, per un’esposizione al vocabolario sempre più complesso, ancora dargli il modello, per cui fargli vedere come si fa a come si dice. siccome qui iniziano a giocare insieme, iniziano anche le diatribe. Qui il ruolo dell’insegnante è fondamentale per insegnargli il lessico a contrattare, di riserva, per farsi e mantenersi degli amici. Ripeto la lettura come parte fondamentale, ad esempio i libri di Julia Donaldson sono fantastici, perché si raccontano i pensieri dei personaggi, si trovano rime e ripetizioni.

Dai 5- 6 anni, se parliamo di bambini italiani, è una fase importante per gli aspetti meta fonologici, che aiutano il bambino ad avere i prerequisiti a imparare a leggere a scrivere. In questa fase è fondamentale l’osservazione del linguaggio, perché se non arriva a scuola con un buon livello di sviluppo del linguaggio, come un grande comunicatore, avrà più probabilità di sviluppare problemi nella lettura e scrittura. Anche se ci sono piccoli problemi fonetici, si deve contattare una logopedista. Se si risolvono queste problematiche prima dell’entrata a scuola, fate un grosso regalo al bambino perché significa che l’apprendimento del linguaggio è finito e può apprendere qualcosa di nuovo, come imparare a scrivere e leggere. Perché se non si è ancora completato lo sviluppo del linguaggio, il bambino va in sovraccarico e possono svilupparsi problemi di attenzione. La lieve difficoltà può diventare un problema complesso da arginare. 

Vorrei dare qualche indicazione anche per il Mutismo selettivo

Innanzitutto è bene differenziare tra mutismo selettivo e silenzio temporaneo. Ad esempio quando un bambino è stato esposto ad una lingua per tanto tempo, e poi viene trasportato in un ambiente in cui si parla un’altra lingua, è possibile che abbia da 1 a 6 mesi di silenzio in un certo ambiente come la scuola dove si parla la lingua che non consce.

Per questo bisogna stare attenti con le definizioni, perché in questo caso può essere una fase di assestamento per resettare, e capire un nuovo codice. Per fortuna ci sono degli specialisti, perché è un tema davvero delicato e semplificare non e’ la scelta migliore. Non può essere compito degli insegnanti dare una diagnosi di questo tipo, il supporto di specialisti di questa area è essenziale.

Anche qui, il consiglio che do agli insegnanti è quello di annotare, scrivere, osservare e confrontarsi con le varie figure di esperti. Per degli approfondimenti consiglio di affidarsi all’Associazione Associazione Italiana Mutismo Selettivo e al Royal College of Speech and Language Therapists.

Del bilinguismo cosa mi racconti? Qualche suggerimento per chi lavora in contesti bilingui.

Il bilinguismo non porta nessun ritardo del linguaggio, è bene ribadirlo. Gli studi hanno dimostrato che arricchiscono il bambino, si e’ riscontrato che i bambini hanno più memoria, più capacità attentiva. Ci sono una marea di studi che affermano tutti gli effetti positivi del bilinguismo. Purtroppo ricevo tantissime famiglie che hanno aspettato a contattare una professionista perché convinte da altri dalla credenza: “Non ti preoccupare, parlerà”. Il bilinguismo non porta ad un ritardo. Per un bilinguismo equilibrato, gli studi consigliano ad ogni genitore la propria lingua nativa, oppure ad ogni contesto una lingua (ad esempio a scuola l’inglese e casa l’italiano), questo permette di avere un input equilibrato. Immaginatevi le ore dedicate al bilinguismo come una pizza, e le frazioni di tempo dedicate ad una lingua. Non si deve confondere il bilinguismo dei genitori, che magari hanno appreso la lingua da adulti, con quello dei bambini che viene esposto dalla nascita o a 2-3-4 anni ad un’altra lingua. Le scienze hanno dimostrato che il cervello di un bambino bilingue è differente da un bambino monolingue. 

Come aiutare i bambini bilingui?

Consiglio di guardare un particolare Ted Talk per approfondire questo aspetto, perché individua l’età sensibile. L’aiuto dipende molto dall’età, i bambini iniziano a discriminare la lingua dagli 8 mesi, ovvero inizia a captare le lingue a cui è esposto e concentrarsi su queste. Dagli 0 ai 7 anni è il periodo in cui i bambini possono facilmente diventare bilingui, poi dai 7 anni in poi questa linea cala. Da 0-4 anni è il periodo migliore per imparare una lingua, nella mia esperienza ho visto anche bambini di 9 anni recuperare l’apprendimento della seconda lingua. Qui l’insegnante ha un ruolo chiave perché deve aiutare a trovare le strategie per comunicare con loro. In questa fase qui, bisogna tornare ai consigli di cui abbiamo parlato per la fascia dagli 0 ai 2 anni. Ovvero la consistenza, è importante che abbiano delle parole chiave da utilizzare quando gli servono/nella quotidianità, poi usare le immagini.

Rendergli l’esperienza più divertente e facile possibile, non spaventarsi delle difficoltà ma puntare al divertimento perché se si diverte, e lui ci prova, si impara velocemente.

È importante non farlo diventare un problema. Dopo 7 anni, bisogna fare più attenzione, si possono fare attività extra per accelerare l’apprendimento della seconda lingua, come organizzare i playdate, ovvero degli incontri dopo scuola con gli amici. Anche la CAA può essere un supporto per aiutare il verbalizzare ma è importante che si utilizzi per aiutare la verbalizzazione, e solo per un periodo limitato. Ricordiamoci che il bilinguismo è un anche un fattore culturale, significa entrare, capire e conoscere una cultura differente. A Londra ho visto tante famiglie che vivono in una bolla di italianità, ed è normale avere un primo periodo di spaesamento. Come ad esempio, le famiglie in cui solo un genitore parla italiano, ma la lingua principale della famiglia è l’inglese, è normale che i bambini rispondano con la lingua con la quale si sentono più forti. Se consideriamo quello che abbiamo detto prima sul divertimento e l’accesso di apprendimento, è importante capire che non si deve bloccare il pensiero del bambino, e dire ad esempio “Rispondimi in italiano!”, assolutamente no. Si deve bilanciare l’esposizione delle due lingue, in modo paritario, ed in questo caso aumentare le attività che si fanno in italiano. È importante non arrendersi, ma si deve puntare su un alto livello di motivazione, divertimento e gioco.

Sulla R moscia, mi dici qualcosa? Sai che per me e un argomento sensibile. 

Io ne sto correggendo tantissimo negli adulti che parlano più di una lingua, e hanno problemi a farsi capire nella seconda lingua. In realtà è quanto la persona, percepisce quel modo di articolare una lettera. Non è una patologia, un problema, è più un valore estetico. Lo diventa, come per le balbuzie, se impatta la tua socialità, allora può essere consigliato correggerla. Se vedete il bambino tranquillo con questo aspetto, non create un problema laddove non c’è. Tanti genitori mi chiamano perché i bambini non hanno ancora tirato fuori la R, e allora ci lavoriamo su, soprattutto quando viene sostituita da altre lettere, allora si che si lavora. Se si è preoccupati, si può chiamare una logopedista che fa un inventario fonetico e valuta la situazione.

Trovate un approfondimento di queste tematiche nel mio testo “Dalla parte dell’educazione”

Se questo articolo ti è piaciuto e vuoi rimanere aggiornato sui prossimi in uscita ma anche per conoscere e raccontare storie e progetti su tematiche pedagogiche e sociali, puoi mettere un like sulla mia pagina facebook.com/diariodiuneducatrice

[instagram-feed]

Annalisa Falcone
Sono un’educatrice e pedagogista. Non potrei immaginarmi a vivere felicemente senza questa meravigliosa e faticosa professione. Adoro leggere e la pedagogia è la mia passione più grande. Ho studiato e lavorato a Milano, Bologna e ad Alicante, piccolo e piacevole paese a sud della Spagna. Faccende di cuore mi hanno portato nel 2015 nell’affascinante Londra.

Leave a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *