Mo sapeva che a Caterina, Cecilia e Maria, quando avessero messo piede su Deneb, nessuno avrebbe chiesto di compilare un modulo sbarrando la F. e non la M. per relegarle di conseguenza in uno scompartimento di seconda categoria.” Extraterrestre alla pari, Bianca Pitzorno
Nel testo “La cultura dell’educazione” Bruner racconta di i bambini entrano a far parte della cultura attraverso numerosi strumenti, tra cui il gioco che diventa un elemento fortemente caratterizzante. All’interno si tramandano tradizioni, credenze e soprattutto le regole insite nella società.
Nonostante il grande interesse per l’infanzia degli ultimi decenni, il gioco viene definito come un’attività riservata solo al lato ricreativo della persona, dimenticandosi tutto il suo potere formativo latente, ovvero quello nascosto che spesso l’occhio adulto non professionista non riesce ad osservare. Per questo, può diventare complicato trasmettere una cultura dell’infanzia davvero interessata e attenta ai bisogni e alle reali caratteristiche dei bambini e delle bambine.
Con il gioco, si imparano e interiorizzano le risposte culturalmente accettate nelle varie situazioni, conoscono e fanno propri i modelli culturali relazionali, apprendendo dalle aspettative che gli adulti riversano nei confronti dei piccoli e delle piccole protagoniste dei giochi. Fin dalla nascita, i bambini e le bambine sono stimolati a comportarsi in modi diversi. Si inizia dal colore del fiocco nascita, per passare ai vestiti fatti di macchinine o stelline, indirizzando l’educazione sui modelli di comportamento compresi nell’area del sesso di appartenenza. Le bambine sono percepite come più sensibili, disposte ad ascoltare mentre i bambini possono esprimere comportamenti più aggressivi.
La divisione dei reparti di giocattoli nei negozi si basa esattamente sugli stereotipi di genere che vogliono trasmettere l’apprendimento di queste caratteristiche in categorizzazioni sessuali rigidi, convinti che siano qualità biologiche e naturali ma in realtà si basano su delle richieste culturali ben precise.
Dai giochi, all’abbigliamento, la pubblicità, al linguaggio e all’impianto comportamentale differenti, i bambini e le bambine imparano presto quali sono gli atteggiamenti, il lessico, e le azioni che sono accettate nella categoria del proprio sesso. In questo modo, sviluppano anche un ventaglio di sfumature diverse sulle possibilità in gioco, dove le emozioni e tutto l’assetto delle fragilità sono proibite, negate e ridicolizzate per i maschi, mentre le femmine sono legate ad un mondo fatto esclusivamente di brillantini, stelline, bambole e fiocchi rosa. Impoverendo tutto l’impianto dei preziosi apprendimenti che maschi e femmine possono attingere dalla scelta libera. Questo fenomeno che viene definito genderizzazione, segue i cambiamenti storici e sociali della cultura di appartenenza. Le varie etichette, le categorizzazioni rigide impediscono ai bambini e alle bambine di sperimentare, di liberare la loro vena creativa, imprigionata in schemi mentali rigidi decisi dal mondo adulto in una società patriarcale. È una delle motivazioni più forti che spinge i piccoli e le piccole a prediligere attività, oggetti e giochi in una forma profondamente stereotipata.
Tutti stili di pensiero e stereotipi che hanno una potente influenza in tutto il corso della vita di ogni persona, nella costruzione dei propri interessi, nell’esprimere i propri atteggiamenti, nell’adesione a certi norme comportamentali, alle aspettative che tutta la società ripone, che rappresentano uno dei meccanismi principali della socializzazione di genere.
Questo fenomeno spinge come un’onda potentissima ad una serie di conseguenze di rilievo, come la segregazione formativa, che come raccontano Biemmi e Leonelli in “Gabbie di genere”, può diventare una cartina tornasole delle disuguaglianze di genere presenti nel nostro sistema scolastico e sociale. Ovvero si tratta della suddivisione sessista che conduce gli studenti verso l’area scientifica, mentre le studentesse verso l’area umanistica e soprattutto di cura. Le differenze emergono già alla scelta della scuola secondaria ma all’università sono chiare e nette, dove il 94% delle laureate in scienze della formazione primaria è donna, mentre in ingegneria i ragazzi sono il 75%.
Sono le stesse convinzioni che portano al gender gap pay, al pensiero che le bambine devono sempre curare il loro aspetto, come se fosse il tesoro più importante da custodire, il maschile neutro come linguaggio universale consolidato, il numero spaventoso di violenze di genere, i malesseri legati al ciclo mestruale sempre sottostimati e trascurati. Non si possono scambiare delle convinzioni culturali, come se fossero dei processi naturali istantanei. Blaise ha denominato girly girl: l’insieme di pratiche per “indossare la femminilità” per le bambine, attraverso gli atteggiamenti corporei, il modo di parlare, mentre le abilità definite maschili ruotano attorno alle competenze, e allo sviluppo personale.
Insomma, in tema di educazione alla parità, il tragitto da fare è ancora lungo e tortuoso. Per questo bisogna partire dagli strumenti che i bambini usano fin dalla prima infanzia: i giochi.
Il gioco aiuta ad interpretare la realtà, supporta lo sviluppo emotivo, sociale e cognitivo offrendo occasioni importanti per espandere i propri territori di conoscenza, favorendo abilità e competenze che oltrepassano il limite del consentito per sesso biologico.
Questo non significa dare un accesso esclusivo ai giochi neutri eliminando tutto ciò che di rosa e blu si trova nelle nostre case, ma negare l’accesso anche ai materiali che per cultura non corrispondono al sesso dei bambini e delle bambine di cui abbiamo la responsabilità.
Si deve lavorare su più fronti, dalle aziende di giocattoli, alle catene commerciali che si occupano di organizzare gli scaffali. Una ricerca ha mostrato come nei cataloghi dei negozi, la maggior parte delle immagini siano stereotipate. Si è riscontrato come i maschi sono almeno due terzi dei protagonisti rappresentati, e le bambine si trovano in due grandi sezioni: attività di cura come le bambole (87%) e i prodotti di bellezza (94,5%). Inoltre, se si osserva con attenzione i giochi definiti “maschili” hanno come tema l’avventura, la ricerca scientifica, mentre tutta l’area femminile, lo svago, o la cura delle bambole sono le uniche realtà rappresentate.
Pubblicità del gruppo aziendale Lisciani di giugno 2020
Anche la ricerca condotta da Emanuela Abbatecola e Luisa Stagi in due scuole dell’infanzia di Genova, raccontata nel testo “Pink is the new black” è molto interessante. Osservando l’intera classe durante il gioco, le ricercatrici hanno notato come i maschi non scelgono le Barbie ma preferiscono la versione maschile. In modo particolare, non giocano con le bambole ma contro di esse inscenando lotte, battaglie, per ribadire che loro sono maschi, diversi dalle femmine e sono a loro agio negli scontri. Seguendo esattamente le aspettative di genere. Su questo filone, si notano distinzioni anche alla domanda “Cosa farai da grande?”, dove le proiezioni delle bambine si riflettono su risposte come “Ballerina, fata” o professioni più concrete come cuoca, bagnina, bigliettaia delle giostre, mentre quelle dei bambini rimandando a mestieri come il poliziotto, il mago, il dottore.
Iniziamo dunque a scardinare la filosofia dell’educazione che vede il rosa come un colore dispregiativo, legato solo alla sfera femminile, e ad approfondire le origini della sua forte stereotipizzazione nel video “How did pink become a girl color”. Questo pregiudizio ha un percorso storico, come racconta l’Atlantic in un articolo, basandosi sul libro della storica Jo B. Paoletti dell’Università del Marylanddal titolo “Pink and Blue: Telling the Boys from the Girls in America”. Nell’ottocento, il rosa era considerato un gemello del rosso, il colore della passione, del sangue, e quindi connesso e indossato soprattutto dai bambini, mentre l’azzurro veniva associato alla tinta del manto della Vergine Maria, e quindi femminile.
Inoltre, i bambini e le bambini fino ai 6 anni indossavano abiti bianchi, per la sua praticità, erano più facili da lavare, senza grandi differenze di sesso. La distinzione avveniva invece per età. Tra gli anni Trenta e Quaranta gli uomini iniziarono a vestire con vestiti più scuri, iniziando così una trasformazione del rosa come colore iconico femminile. La separazione di genere nelle pubblicità dei giochi diminuì attorno agli anni 70, a causa dell’entrata delle donne nel mondo del lavoro, per poi tornare alla ribalta alla fine degli anni 80.
Pubblicità della LEGO del 1981
Alcuni e lenti cambiamenti si stanno verificando, ad oggi una fetta della popolazione genitoriale e dei professionisti hanno compreso l’importanza di offrire una possibilità più ampia di giochi. Ad esempio, le bambole rientrano tra i materiali che includono una marea di competenze. La potenza del gioco simbolico per scoprire un po’ il mondo, la motricità fine del vestire e togliere i vari indumenti, la coordinazione oculo-manuale possibile solo con una buona dose di attenzione, l’esperienza con la stoffa, la plastica dura e resistente, i movimenti delicati per asciugare la pelle così delicata, spazzolare i capelli con cautela, sfiorare con amore. Perché negare questo mondo prezioso ai bambini maschi? Cosa c’è di sbagliato nel prendersi cura di se stessi e del mondo? La risposta più comune è “Si sta esercitando a fare il papà”, ma anche questa può fuorviare perché fa riferimento ad un ruolo sociale rispetto alla persona singola. I bambini giocano perché è il loro mondo, senza discriminare e categorizzare.
Mentre prima negli Stati Uniti e poi nel Regno Unito nato da un gruppo di genitori, troviamo la petizione Let Toys be toys, ovvero “Lascia che un giocattolo sia un giocattolo” che chiede ai grandi marchi di negozi di abbandonare la classica divisione in colori, secondo il genere. In questo senso, Hamleys, uno dei negozi di giochi più grandi al mondo che si trova a Londra, 8 piani di pura meraviglia, sta cercando di abbandonare la rigida divisione, riorganizzando tutto solo per tipologie.
Ad esempio questa è la pubblicità di un’azienda francese.
Qui andiamo negli Stati Uniti.
Anche aziende come Ikea sta facendo un buon lavoro contro la genderarizzazione.
Bisogna sottolineare anche il ruolo di cambiamento che sta facendo la Mattel, i genitori della storica Barbie, su differenti piani. Innanzitutto con la pubblicità dei propri prodotti, inserenti bambini e anche bambine di differenti etnie.
Negli ultimi anni, sta provando davvero a fare della super inclusività la sua bandiera portante con numerose campagne. La prima linea in ordine storico è Barbie “Fashionistas” nel quale si promuove un immaginario più reale che rappresenti la popolazione in termini autentici e umani, comprendendo anche i vari Ken della situazione.
Mentre con la linea “You can be anything” , l’azienda vuole avanzare un’ideale di donna differenti dalla classica figura magra e bionda. Qui troviamo una Barbie che lavora come pompiere, una pilota di aerei, una giornalista.
Sempre per il filone Mattel, si deve segnalare la campagna “More role models” con 18 bambole che rappresentano donne reali ma di successo nel loro ambito (Amelia Earhert, Patty Jenkins). Tra cui troviamo due italiane: Sara Gama, capitano della Nazionale femminile di calcio, e Samantha Cristoforetti, la prima donna italiana ad andare nello Spazio.
Nel 2019 La Mattel ha lanciato una linea Creatable world che rispecchia i canoni del gender free, lasciando ai bambini e alle bambine la libertà di personalizzare i personaggi come si vuole. Ogni confezione offre varie possibilità, con sei tipi di indumenti, tra gonna/pantaloni, scarpe e accessori, capelli lunghi/corti. La combinazione di questi elementi, abbraccia uno stile personalizzato dove non è possibile risalire al maschile o al femminile.
Insomma dobbiamo costruire degli immaginari affinché sia possibile cambiare anche la realtà, in un futuro prossimo dove il fasciatoio può diventare uno strumento abitudinario nei bagni degli uomini!
Fotografia rappresentativa della campagna di sensibilizzazione #iocambio per portare l’attenzione sulla mancanza dei fasciatoi nei bagni degli uomini.
La grande influenza nel comportarsi nei modi in cui la società richiede, dipende dalla connessione di numerosi fattori, ma soprattutto dalle aspettative degli adulti. Irene Biemmi chiama “gabbie di genere” le trappole in cui maschi e femmine vengono rinchiusi in piste già delineate dall’opera continua della spinta sociale.
Per questo, nel costruire il genere dovremo rendere liberi i bambini nel costruire il proprio percorso, impegnandosi a costruire nuovi modelli possibili e reali fatti di narrazioni differenti e multiple. Non solo in ottica di stereotipi di genere, ma ad un pensiero inclusivo che abbraccia e non divide, nel quale l’enorme diversità caratteristica dell’umanità intera possa finalmente togliere le catene da binari definiti da una società che ha l’obbligo morale di evolversi, partendo dall’unicità di ogni singola persona.
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