Nell’educazione alle bambine sembra che ci sia un unico aggettivo per descrivere il loro percorso di crescita e dunque loro stesse: “Bella”. La bellezza sembra l’unico sentiero percorribile verso lo sviluppo del sé, la sola prospettiva da osservare, incoraggiare e sottolineare.
È una descrizione che si ripete in continuazione fin dalla nascita, con un’estrema attenzione al corpo come un oggetto da allestire e tutti gli ornamenti per sottolineare questa caratteristica che appare come esclusiva nel progetto di vita di ogni bambina. Il corpo diventa uno strumento che deve necessariamente sottostare alle folli regole sociali della magrezza.
“Sei bellissima!” è quello che tante bambine ascoltano in forma massiccia durante i primi anni della loro esistenza e che inseguono negli anni a venire. Così ricercano questo ideale di bellezza predilegendo tulle, brillantini, in un processo di pinkizzazzione che vede nel rosa l’unica possibilità cromatica corretta per il mondo femminile.
La genderizzazione ovvero il processo che caratterizza un oggetto affinché sia evidente il genere a cui riferisce si è sviluppato, secondo J Paoletti, dalla seconda metà del secolo scorso attraverso una fitta trasformazione in ambito pubblicitario che ha portato al triste scenario attuale.
Bambine che ricercano nei colori, nelle preferenze, gusti e giochi ciò che il mondo adulto si aspetta da loro. Una traiettoria obbligatoria che alimenta gli stereotipi e quel pensiero in grado di rinforzare la socializzazione di genere, ovvero il processo secondo cui le bambine ed i bambini apprendono i ruoli ed aspettative sociali in riferimento al loro sesso di appartenenza. Spesso genitori e insegnanti utilizzano atteggiamenti, linguaggi e messaggi del tutto incosapevoli di aver intrapreso questa direzione. Oltre il nucleo familiare e la scuola, questo percorso prende forma anche attraverso altri agenti sociali come i media. La pubblicità ha un ruolo di rilievo nell’evidenziare l’essenzialità della bellezza anche in età infantile, sono un esempio le tipologie di campagne marketing che troviamo in qualsiasi catalogo per giochi e di vestiti.
Per cui quando ogni adulto che si incontra sottolinea “la bellezza” dei vestiti, del disegno, del corpo, dei comportamenti standarizzati, tutto ciò che potranno fare le bambine è seguire quella strada. Il mito della bellezza è uno degli aspetti più densi che interiorizziamo, uno dei giudizi più forti che percepiamo e ascoltiamo fin da piccole.
Una definizione che deriva dal testo “Il mito della bellezza” di Naomi Wolf, attualmente disponibile solo in inglese. Una dinamica che la psicologa Renee Engeln definisce la malattia della bellezza, ovvero la quantità di energie, tempo, denaro e risorse che il mondo femminile (anche le bambine) dedicano alla cura del proprio aspetto.
Questo capita non per scelta personale (o almeno in casi rari) ma perché siamo immerse in una società che vede la donna come un essere sessuato e sempre giudicata sulla base dell’adeguatezza del proprio corpo, nascondendo la competenza passa in secondo piano. È un processo che inizia fin da piccole come testimoniano le numerosi pubblicità con protagoniste delle bambine.
Una cascata di brillantini, un incoraggiamento sostenuto verso tutto ciò che serve per sentirsi gratificata agli occhi esterni, per sentirsi bella e attraente. Non è sbagliato aderire a certi canoni di bellezza, occuparsi del proprio aspetto e desiderare che le bambine facciano attenzione a questo aspetto, ma è l’importanza esclusiva di questo aspetto ad essere pericoloso. Il rosa e il mondo delle principesse non sono il problema ma lo diventano quando rappresentano l’esclusività degli immaginari.
Tra i cinque e i sei anni le bambine sembrano assimilare una diversa percezione delle proprie capacità, con la convinzione che i maschi siano più intelligenti delle femmine.
Sono queste le conclusioni alle quali sono arrivati tre ricercatori negli Stati Uniti (Bian, Leslie e Cimpian). In una fase dello studio i bambini e le bambine dovevano indicare il protagonista di una storia che fosse intraprendente e intelligente. Era possibile scegliere tra quattro adulti, due uomini e due donne. Le bambine più piccole tendevano a riconoscere come protagonista una donna, seguendo la tendenza che porta a valutare di più il proprio genere. Ma in pochi anni le bambine cambiavano idea e indicavano come protagonista un uomo. In un’altra parte dello studio i ricercatori hanno invitato bambini e bambine a partecipare a giochi considerati “complessi” e per persone molto intelligenti. A cinque anni di età non c’era nessuna differenza tra maschi e femmine, mentre verso i sei anni di età le bambine hanno iniziato a rifiutare questa tipologia di sfida.
Si è evidenziato che di fronte allo stessa esperienze, la percezione delle proprie capacità per le femmine cambia radicalmente iniziando ad attribuire caratteristiche e peculiarità in ottica positiva come l’intelligenza a personaggi di genere femminile.
Il linguaggio crea la realtà in cui siamo immersi e con il lessico che decidiamo di utilizzare possiamo davvero far la differenza.
Cosa fare?
Occorre trovare un bilanciamento. Focalizzarsi su tutte le altre capacità che le bambine dimostrano in modo tale che “sei bellissima” non sia l’unica nota linguistica percepita dagli adulti. Sottolineare le competenze, le conquiste, il saper fare rispetto al mero apparire.
Comunichiamo alle bambine quanto sia meraviglioso portare a termine un compito, quanto sia importante. Diciamo alle bambine che la bellezza è la capacità di sperimentare e scoprire ciò che ci piace fare, di decidere per noi stesse e di guardare un po’ più in là. Educhiamole al pensiero che il corpo è personale, e se ne devono prendere cura senza torturarlo. Qualunque esso sia.
Tempestina è uno splendido esempio.
Comprendere cosa sono gli stereotipi di genere e come si formano.
Acquisire una certa sensibilità a queste tematiche studiando, approfondendo la questione su vari livelli. Su questa area consiglio caldamente il testo di Jennifer Guerra, che nel “Il corpo elettrico” coniuga conoscenze, informazioni ed un pensiero che traccia un percorso che dall’autocoscienza del corpo femminile arriva fino ai gender studies contemporanei.
Eliminare la divisione dei giochi etichettando tipologie specifiche per le femmine e altre per i maschi. Il gioco è una dinamica essenziale verso molteplici apprendimenti e limitare le sue potenzialità dividendo per genere è un’opera svilente per piccoli e grandi.
Iniziare a fare un’analisi personale ed esprimere apprezzamenti sull’aspetto fisico ad entrambi i generi.
Prendiamo dalle nostre tavolozze infiniti di colori e parole ampie che sappiano descrivere e incoraggiare le bambine ad un orizzonte libero da pregiudizi e pieno di possibilità (oltre la bellezza).
Qui trovate il mio testo “Dalla parte dell’educazione”
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