Le scuole seguono i bambini non i programmi” Reggio Emilia Approach
C’è una ricerca acuta delle educatrici e genitori alle attività da proporre, ai vari allestimenti instagrammabili che inseguono lo stupore e la meraviglia. Così facendo, gli adulti della situazione sono convinti di aumentare le possibilità di apprendimento e allenare qualsiasi competenza, stimolare capacità multiple, ed intelligenze in varie aree. Si verifica una sovrastimolazione di esperienze che invece di consolidare la conoscenza, la rendono più superficiale e approssimativa.
Il corso di nuoto, piscina, musica, yoga e inglese non sono più opportunità ma rischiano di caricare i bambini non solo di tempo sovraesposto al fare, ma anche di schemi, prospettive prestabilite e conformità. Come se concedere tutto, in qualsiasi forma, tempistica e condizione sia funzionale per il loro futuro.
I linguaggi espressivi sono strumenti importanti per scoprire e conoscere il mondo circostante ma non devono sfociare in gabbie rigide e slot preconfezionati che non lasciano spazio alla sperimentazione di tutto il bello e prezioso che c’è.
Così che i piccoli siano aderenti alle aspettative degli adulti, che prevedono già rigide strade di percorrenza ma spesso intrappolano e soffocano i reali bisogni dei bambini. “Fare tanto e bene” diventa prioritario rispetto allo “stare bene”, per dimostrare quanto l’adulto responsabile di quel processo di sviluppo sia competente e capace. Così mettere la colla nel punto giusto, imparare a leggere e far di conto sempre prima diventa il risultato da mostrare per esprimere la perfezione dell’adulto. I lavoretti diventano la modalità, l’obiettivo e la dimostrazione del nostro agire.
C’è l’estrema tendenza a considerare i bambini come cittadini del domani, e se in parte è vero, spesso ci dimentichiamo del loro presente e del fatto che il processo di apprendimento ha bisogno di soste, lentezza, tentativi, prove ed inciampi per essere consolidato. Si progettano così attività sorprendenti e laboratori con obiettivi sempre più elevati perché se i bambini dimostreranno quanto prima raggiungeranno quell’obiettivo, anche loro entreranno nella categoria degli adulti bravi e perfetti.
Cosa significa fare educazione?
L’educazione non è intrattenimento, ma è un processo che va a fondo ai non detti, ai gesti, agli incoraggiamenti con una presenza discreta delle educatrici fatta di silenzi, parole calibrate, osservazione, progettazione di spazi, ma anche fallimenti e tentativi.
Fare educazione non significa progettare l’attività della mattina, elaborare quel laboratorio di inglese richiesto dalle famiglie, chiamare l’esperta di musica ma vuol dire avere la responsabilità del processo di sviluppo di individuo, con tutta la fatica, la difficoltà ma anche la meraviglia che comporta.
Occuparsi della crescita di una persona è molto più complesso che assemblare coniglietti e far colorare castagne su alcune schede.
Ormai siamo consapevoli, anche per ciò che la letteratura scientifica di riferimento che i bambini imparano attraverso il fare corporeo, così che tutte le conoscenze utili per la sopravvivenza avvengono tramite i sensi e le esperienze continue tramite mani, piedi, naso, bocca e orecchie. Come costruiamo tale conoscenza?
Provando, sbagliando, compiendo dei tentativi, del fare ricerca quella modalità operativa perenne che ci contraddistingue da qualsiasi essere vivente.
Quando un bambino ci pone una domanda, come adulti quale postura abbiamo? Gli diamo una risposta diretta o proviamo con lui a creare delle risposte? Come scopre che il ghiaccio è freddo, l’autunno ha diversi colori, il vetro si rompe e generalmente il legno è più robusto. Facendo esperienza del mondo. Come avviene questo processo di apprendimento?
Tramite proposte rigide o sostenendo l’esplorazione dei bambini? Quanta libertà e spazio hanno di scoprire, incastrare, combinare tutto ciò che gli mettiamo a disposizione?
Spesso nei servizi educativi, a queste domande si percepisce una certa fatica a rispondere. Come se al di fuori della routine rigida, delle modalità operative ormai consolidate non ci sia spazio per altro.
Un bambino che non ha l’abitudine a pensare, ragionare, ipotizzare ma solo ad eseguire e seguire le istruzioni come farà ad affrontare tutta la complessità del mondo in cui viviamo? Solo crescendo pensiamo che magicamente impari a dare forma a delle risposte? Se a scuola non ha questa opportunità come potrà farlo da grande?
Da qui sorgono altre domande: quali strumenti mettiamo a loro disposizione per affrontare la vita? Quali valori stiamo trasmettendo e condividendo? Come affrontiamo i loro stati d’animo? Di fronte ad un pianto, ad una difficoltà nel vivere la comunità, come diventiamo i loro adulti significativi?
I dati delle violenze sono elevatissime, la rabbia e le tristezza sembrano le emozioni più percepite e provate in questo periodo storico fatto di crisi e cambiamenti veloci. Il problema non sono ovviamente le emozioni provate, tutte sane e normali ma i comportamenti che esprimono una rabbia accumulata, una tristezza profonda, una desolazione acuta. Insegnare gli adulti a gestire questa parte emotiva è un enorme lavoro interiore molto faticoso che costa non solo fatica e difficoltà a chi si mette in gioco ma a tutta la popolazione. Per questo, dobbiamo iniziare a farlo con i bambini. Così si fa un lavoro di prevenzione globale.
La maggior parte degli omicidi avvengono in contesti familiari, le violenze domestiche sono all’ordine del giorno e questo significa che stiamo sbagliando qualcosa nel processo di sviluppo dell’empatia. Fare i progetti sul bullismo in adolescenza è come provare a curare un virus con un cerotto e ormai abbiamo imparato quanto sia molto più complicato.
Per tutte queste ragioni, fare educazione è un processo complesso, altamente riflessivo e faticoso. Non basta proporre un gioco, un materiale per far infilare nel cervello dei bambini capacità e competenze. Serve una scientificità che si basa su studi, ricerche e una tonnellata di volontà nel mettersi in gioco, del fare del dubbio e della ricerca costante la nostra strategia operativa. Servono le domande e le sperimentazioni. Occorre scardinare una vecchia tradizione scolastica che vede nella compilazione delle schede, un insegnante che parla e un ascolto muto la strategia più diffusa.
Le parole che utilizziamo danno forma alla realtà, plasmano la nostra quotidianità, definiscono il ruolo e le relazioni che si attivano. Ad esempio utilizziamo la terminologia “materiali destrutturati” per raccontare la visione di un bambino scienziato, esploratore che cerca soluzioni e compie tentativi.
Mettiamo i giudizi in tasca e facciamo dell’osservazione costante il nostro strumento basilare. Dedichiamo attenzione alla scelta degli albi illustrati che offriamo nelle nostre sezioni, facendo cura al linguaggio utilizzato nelle pagine, al messaggio che veicolano le illustrazioni.
Serve uno sguardo aperto, accogliente e altamente riflessivo che sappia meravigliarsi e al contempo sostenere tutta la responsabilità educativa che come adulti abbiamo il dovere di occuparci.
Trovate un approfondimento di queste tematiche nel mio testo “Dalla parte dell’educazione”
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