Nel 1989 è stata sancita la Convenzione internazionale dei diritti per l’infanzia e dell’adolescenza. Sono diritti che abbiamo bisogno di ricordare e trasformare nelle modalità operative con cui fare educazione ma dall’89 ad oggi, l’assetto sociale si è modificato e da qui anche i diritti da difendere. Dopo il diritto di giocare, esprimersi, essere protetti e difesi , ai bambini e alle bambine bisognerebbe aggiungere il santo diritto alla privacy.
In realtà l’articolo 20 tratta il tema della riservatezza ma non con lo sguardo su un epoca digitale come quella attuale.
Diritto alla privacy si, alla volontà di non esser sempre ripresi in modo compulsivo, di non condividere con estranei pagelle ed episodi personali. Il diritto a non sorridere di fronte all’ennesima richiesta per produrre materiale per i social, di piangere in totale riservatezza.
Se prima la nostra foto imbarazzante con il vestito orrendo di carnevale o il il primo bagnetto rimanevano nell’area riservata della nostra famiglia, ora questo non accade più diventando così materiale pubblico e visibile a tutti.
Pubblicare le foto dei bambini sui social è ormai un gesto naturale, perché la nostra vita è sempre più online, con un racconto continuo della quotidianità. Da qui alla compulsività della narrazione è stato un facile passaggio, soprattutto per chi ha trasformato il racconto sui social in un lavoro. L’abitudine a postare facce buffe, tristi dei figli piccoli che mangiano, giocano, dormono, ridono, piangono è prerogativa generalizzata quasi di ogni genitore, esponente del diffuso fenomeno dello sharenting, ovvero “l’uso abituale dei social media per condividere informazioni, foto, ecc. dei propri figli” secondo il dizionario Collins.
Il telefonino sembra esser diventato il mezzo di relazione tra figli e genitori in un tempo in cui la condivisione istantanea è una regola consolidata.
Lo racconta bene anche la giornalista Serena Mazzini in questo articolo in cui riassume il fenomeno.
Ormai sui social troviamo racconti di ogni momento della giornata dei bambini: dalla colazione, al tragitto per la scuola, i pianti durante l’ambientamento al nido, fino allo spannolinamento e persino l’ecografia in primo piano. Oltre ai momenti felici vengono condivisi anche i comportamenti derivati da emozioni come la tristezza, disperazione, rabbia spesso con un atteggiamento di derisa nei confronti dei più piccoli, sminuendo e rendendo superficiale ciò che provano e dunque anche loro stessi.
A noi piacerebbe se qualcuno, senza il nostro permesso, pubblicasse un contenuto come foto o video di un nostro momento di fragilità e quotidianità?
Proprio di questo si tratta: l’assenza di consenso, la violazione della privacy, la mancata tutela dell’immagine del bambino
La privacy è un diritto non solo degli adulti, ma anche per i bambini e le bambine che devono essere tutelati dall’occhio curioso acceso 24ore su 24 su di loro. Soprattutto se la telecamera accesa riprende il loro processo di crescita in modo ossessivo, come se esser ripresi in continuazione sia la regola basilare del rapporto con la società.
Una violazione che non ha freni perché quando si preme il tasto “pubblica” si perde il controllo su quella immagine e sui contenuti, mettendola a disposizione di tutti, senza alcuna limitazione. Su internet non si cancella mai niente, come un tatuaggio digitale. Anche di fronte alle restrizioni di visualizzazione, un conoscente potrebbe salvare quel contenuto ed inviarlo a chiunque e renderlo pubblico.
Per migliaia di donne e famiglie, questo racconto è diventato un mestiere e così le foto con il sorriso smagliante, la pubblicità al brand fanno parte di un progetto imprenditoriale più complesso. Utilizzare i propri figli come contenuto significa immortalarli in continuazione e creare post ad arte affinché siano acchiappa like funzionali allo scopo: vendere e guadagnare. Così la richiesta esplicita di rispettare certe indicazioni sempre sotto la camera di un telefono, indossare il bel vestito per essere fotografati, e ricercare l’obiettivo in modo assiduo diventa normalità. Come accolgono i più piccoli queste richieste? Cosa stiamo trasmettendo loro?
Quali effetti a lungo raggio potranno avere i bambini cresciuti secondo la società della perfomance che richiede la manifestazione costante del proprio essere perfomanti, belli, simpatici e attraenti?.
Continuando a chiedere loro di indossare determinati vestiti, i bambini e le bambini interiorizzeranno la convinzione che per piacere ed essere amati dalle figure di riferimento, dovranno aderire agli standard richiesti: essere piacevoli, gredevoli, graziosi, portare a casa il risultato, restare in forma, ottenere i like. Non c’è alcun rispetto per loro corpo, per i loro diritti e bisogni legati all’infanzia.
Inoltre la strategia di educazione più potente è il “modelling”, il dare l’esempio e così i bambini e le bambine impareranno le proprie modalità di pensiero dalle loro figure di riferimento. Se i genitori pubblicano post e immagini per ottenere i “Mi piace”, si tratta di trasmettere l’idea che la convalida da parte del mondo esterno sia necessaria. È importante educare invece all’autodeterminazione, alla libertà di scelta fatta da molteplici possibilità diverse rispetto che alla condivisione di materiale vario per ottenere affetto e consenso.
Uno studio esaustivo pubblicato di recente (2019) è quello di Gaëlle Ouvrein, dal titolo “Sharenting: Parental adoration or public humiliation? A focus group study on adolescents’ experiences with sharenting against the background of their own impression management”. Questo studio ci mostra un dato di fatto: i genitori condizionano l’identità o il concetto di sé dei figli attraverso la pubblicazioni dei contenuti. Per questo la condivisione delle informazioni può provocare frustrazione negli adolescenti, con tutte le conseguenze.
I bambini vivono in una situazione di estrema vulnerabilità ed ogni giorno è importante per costruire il loro sé, fatto di autostima, competenze, credenze, certezze, conoscenze sul mondo. Non hanno consapevolezza che le loro immagini siano pubbliche e spesso utilizzate per vendere prodotti o servizi. Quando inizieranno ad essere autonomi e navigare in rete, dovranno fare i conti con un archivio digitale enorme e l’essere stati ininterrottamente esposti pubblicamente, confrontarsi con parole associate alla propria immagine che non si sono scelte e commenti da leggere di sconosciuti, e con tutto ciò che non abbiamo compreso in termini di conseguenze a lungo raggio.
L’esposizione assidua genera il pensiero di una infanzia adultizzata, in un’epoca in cui ci siamo liberati dell’idea autoritaria di educazione lasciando però spazio alla convinzione che le regole non siano più necessarie invece che uno strumento per sviluppare una libertà interiore personale e autentica. Un’infanzia non competente legata al diventare consumatori, alla richiesta compulsiva di infiniti materiali per aderire alle aspettative esterne, falsate dall’idea di essere in grado di aderire ai ruoli sociali imposti, ed essere così apprezzati e amati.
La buona intenzione dei genitori non è più sufficiente. I genitori sono orgogliosi nel mostrare la bellezza, bravura, quotidianità dei propri figli ai loro contatti come se la loro competenza, fosse la nostra, assicurandosi così il premio come “migliori adulti del mondo”. Come adulti però siamo responsabili dell’educazione e dobbiamo essere consapevoli delle dinamiche in gioco dei contesti digitali di cui facciamo parte.
Chi invece racconta la genitorialità e la vita dei figli insistentemente, fattura attraverso l’immagine dei piccoli testimonial, e dunque è obbligatorio parlare di lavoro dei “baby influencer”. Ci sono numerosi bambini e bambine che lavorano come modelle e attrici ma in questi casi c’è una regolamentazione precisa che stabilizza le ore di lavoro, guadagni e pause.
In questo caso inoltre si tocca il tema, grave e rischioso, di legare il loro volto ad un brand e dunque anche una scala di valori e ad una riflessione ideologica-politica senza il consenso e la profonda consapevolezza di chi ci mette la faccia in primo piano: i bambini e le bambine.
Vi piacerebbe che il vostro volto venga associato ad un’idea che non condividete?. Perché è quello che succede.
L’accesso ai social è consentito dai 14 anni in su, allora perché permettiamo l’uso costante del corpo dei bambini e delle bambine per mano dei loro genitori?
Il telefono e i social sono uno strumento potentissimo e non comprendere le responsabilità di cosa si condivide con il pianeta è pericoloso e ingenuo.
In questa valanga di foto, Reel e pubblicità, manca una riflessione sugli effetti a lungo termine dell’esposizione social continuativa, nell’epoca del like. Sembra che gli adulti della situazione vivano in un presente costante e non siano più capaci di pensare agli esiti delle loro azioni in un tempo futuro, nemmeno tanto prossimo.
Un prospetto realistico e drammatico lo compie l’autrice Delphine de Vigan nel romanzo “Tutto per i bambini”. Il romanzo si conclude con un epilogo ambientato nel 2031, che tocca corde di probabilità molto alte, della giovinezza dei baby influencer, ora adulti e consapevoli di tutto ciò che la rete dispone e conosce di loro. C’è un disturbo psichiatrico conseguente alla sovraesposizione precoce sui social definito la “Sindrome del Truman Show”, i pazienti affetti sono convinti di essere filmati in permanenza e che ogni minuto della loro vita sia ritrasmesso da qualche parte, tutto i loro ambiente è reso complice di questa macchinazione. Sono giovani adulti che non escono più di casa, lavorano a distanza, consumano prodotti consegnati a domicilio e comunicano attraverso interfacce o videogiochi, sempre più sofisticati. Solo a questo prezzo si sentono al sicuro. Un sintomo principale è la dipendenza (da internet, alcool o droga). Più che un romanzo, mi sembra un saggio attuale.
È essenziale che i genitori imparino a capire e considerare le implicazioni a lungo termine per i loro bambini di avere un’impronta digitale pubblica e visibile da tutti.
D’altro canto, occorre istituire una regolamentazione più ferrea nei confronti delle immagini che rappresentano l’infanzia e sperare che i bambini e le bambine di oggi riescano a liberarsi dal loro archivio online e seguire un percorso di autodeterminazione consapevole del poteredel digitale, prendendo il buono e prezioso di questo strumento. Fare educazione significa assumersi una responsabilità enorme nel dare forma ad una cittadinanza attiva e consapevole del potere immenso che ha nel vivere questo mondo complesso e pieno di sfide. Siamo tutti e tutte comunità educante.
Non è più una questione di desiderio di condividere, ma di rispetto e consenso nei loro confronti, e proteggerlo è importante, più del fatto stesso di mostrare la loro vita in pubblico.
Qui puoi trovare il mio testo “Dalla parte dell’educazione”
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