Perché abolire le feste comandate della mamma e del papà ed introdurre la festa degli affetti

Viviamo in un’epoca di grandi cambiamenti multifattoriali che ha portato ad una progressiva pluralizzazione e complessità dei nuclei familiari. Queste trasformazioni sociali hanno reso obbligatorio anche un ripensamento non solo della riflessione pedagogica in termini di accoglienza alle nuove famiglie ma anche sotto forma di strategie da mettere in atto. 

Sappiamo, e la teoria ci aiuta a comprenderlo, che accogliere un bambino e una bambina in una servizio educativo significa accogliere anche la sua famiglia, qualsiasi essa sia. Vuol dire anche il suo bagaglio di esperienze, la sua storia, per dare forma a buone pratiche di accoglienza le quali ogni diversità dovrebbe tradursi risorsa. 

Dovrebbe, il punto è tutto qui. 

Invece siamo immersi ancora in una realtà in cui prevale l’idea che esista un modello unico ed esclusivo di famiglia al quale attenersi composto da madre, padre e figli. Qualsiasi altra forma, storia, composizione, possibilità viene vissuta con imbarazzo e quasi con titubanza considerando che di fronte a questa complessità tanti servizi educativi celebrino ancora la festa della mamma e del papà. 

Come se ci fosse una possibilità unica di nucleo familiare, cancellando così le altre infinite possibilità, le separazioni complicate, le famiglie omogenitoriali per lutto, violenza, scelta o perché uno stato non accoglie l’idea che due donne o due uomini possano crescere un bambino senza alcuna controindicazione per il suo sereno sviluppo globale.

Questa convinzione non pervade solo la mentalità comune, ma considerando che non c’è adeguata formazione in materia anche nel personale educativo che si trova senza strumenti ad accogliere la moltitudine delle famiglie attuali. 

Così produrre cravatte e rose, eseguire i cosiddetti lavoretti diventa l’unica variabile che conoscono. Educatrici e maestre si sentono obbligate a perpetuare la stessa modalità operativa, ad incollare fiori freschi su cartoncini, trascorrere le pause pranzo a tagliare cravatte. I lavoretti e le feste comandate sono il simbolo di una scuola che non cambia e non vuole farlo. 

Fare tanto e bene” sembra sia prioritario rispetto allo “stare bene”, per dimostrare quanto l’adulto responsabile di quel processo di sviluppo sia competente e capace. 

Fare l’educatrice non significa intrattenere, animare ma è un processo molto più profondo, complesso che connette la responsabilità del processo di sviluppo di individuo con una postura di ricerca e utilizzo di teorie e pratiche, insieme a numerosi strumenti. Trovate un approfondimento qui. 

Le festività diventano uno strumento che rilancia dibattiti non tanto sull’esistenza di una “famiglia naturale” o sul concepimento, ma sulla giustizia di queste festività che tendono, a parer di alcuni, ad escludere una fetta di popolazione. Tutto questo si accompagna un’invisibilità istituzionale, legata al mancato riconoscimento giuridico delle relazioni di coppia tra persone dello stesso sesso che aumenta le disuguaglianze e le fragilità. 

In questo scenario dobbiamo ricordarci i servizi educativi e la scuola sono luoghi dell’accoglienza, apertura e inclusione. Non solo in teoria ma anche nelle buone pratiche. Il personale educativo deve contribuire allo sviluppo del benessere psico-fisico di ogni bambino: se non lo accogliamo nel senso pieno della parola non svolgiamo bene il nostro mestiere. 

La partecipazione nei servizi educativi genera un’intensa vita di relazione comunicativa tra educatrici, bambini, genitori e società. La presenza delle famiglia è essenziale tanto quanto quella dei bambini e del personale educativo. Al nido e alla scuola dell’infanzia la gestione sociale e la partecipazione non sono separabili dalle scelte di contenuto dell’agire educativo, sono anzi elementi qualificante ed ineliminabile della quotidianità.

Carla Rinaldi sosteneva: “Partecipazione dei bambini, delle famiglie, degli insegnanti non solo come “prendere parte” a qualcosa ma piuttosto come “essere parte”, sostanza di un’identità comune”.

Le feste per tanti servizi sono l’occasione per offrire colazioni, dare forma a laboratori, pensare a dei momenti specifici ma perché classificarli ed etichettarli in una sola giornata l’anno?

Diventa quindi importante avanzare delle riflessioni e modificare il lessico. Sostituire il termine “famiglia” con il plurale “famiglie”, operazione che sottintende l’esistenza di numerose forme familiari che si sono aggiunte a quella tradizionale. 

Mettendo da parte simboli stereotipati e sostituire le feste comandate, e così i classici manufatti fingendo che li abbiano fatti i bambini e le bambini perché non possiamo accogliere tutte le famiglie celebrando la festa delle famiglie? Oppure la festa degli affetti, dei legami per ampliare il pensiero ad una scuola che accoglie qualsiasi forma di cornice rigida. In cui ogni legame, come zii, nonni, cugini sono accolti e inclusi. 

Non si tratta di non turbare la serenità dei bambini che non hanno il papà o la mamma, o almeno non solo, è una questione più profonda e radicata e soprattutto che esprime inclusività senza etichette. 

Il cambio del lessico però deve essere accompagnato anche ad una prospettiva differente che non sposi la performance ma diventi occasioni per celebrare, condividere, creare legami e affetti tra persone che si prendono cura. 

Non è solo una scelta linguistica, dire festa delle famiglie include tutti i tipi di famiglia.

La festa dell’inverno include tutte le religioni ed anche chi non crede. Includere vuol dire aprire le porte, costruire ponti e non muri. Per il resto ogni anno è differente perché diversi sono i bimbi e le bimbe con le loro famiglie. 

La sfida è quella di sospendere il giudizio. Rispettare le storie e le caratteristiche dei nuclei familiari è anche l’inizio di un percorso che mira a sostenere le famiglie, tutte (tradizionali e non) nelle proprie capacità genitoriali. 

Occorre una maggiore attenzione nei confronti di un cambiamento in atto che ha radici lontane e complesse e proporre momenti e tempi dove tutti possono partecipare in uno spazio dove star bene insieme nelle differenze e sfumature come colazioni ad hoc, laboratori, pranzi di condivisione come pratica ordinaria e fuori dai giorni “comandati”. In questo modo tutti e tutte si possono riconoscere. 

Pensieri e strategie operative che mirano a costituire un’educazione democratica fatta di uguaglianza, senza dimenticarci che i bambini acquisiscono i pregiudizi dalle fonti di socializzazione che hanno intorno: famiglia e scuola in primis. 

Nel cambio di prospettiva, passo obbligatorio è quello di raccontare e rendere partecipi le famiglie, con la consapevolezza che alcune probabilmente avanzeranno la mancanze di feste e regali ad hoc, ma qui risiede l’importanza del nostro mestiere: ricordarci e perseguire l’idea educativa secondo la quale noi non lavoriamo per creare dei prodotti o per accontentare i genitori ma per sostenere i bambini e le bambine nel loro processo di crescita. Questo significa raccontare ai genitori il compito difficile che siamo chiamate a svolgere, trovate modalità di racconto differenti, attivare altri tempi e luoghi in cui la famiglia sia davvero coinvolta nell’apprendimento dei bambini e delle bambine, e assemblare coniglietti e far colorare castagne su alcune schede è ormai un approccio che non risponde ai bisogni dei più piccoli. 

Noi proseguiamo nel pensare che non lavoriamo per i prodotti o per accontentare gli altri ma anzi per provare a far star bene tutti…per primi i bambini.

Qui puoi trovare il mio testo “Dalla parte dell’educazione”

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Annalisa Falcone
Sono un’educatrice e pedagogista. Non potrei immaginarmi a vivere felicemente senza questa meravigliosa e faticosa professione. Adoro leggere e la pedagogia è la mia passione più grande. Ho studiato e lavorato a Milano, Bologna e ad Alicante, piccolo e piacevole paese a sud della Spagna. Faccende di cuore mi hanno portato nel 2015 nell’affascinante Londra.

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