Andiamo tutti a scuola di prevenzione di violenza di genere. Adulti compresi.

Capita spesso che di fronte ad eventi di cronaca intensi dal punto di vista emotivo (questione ambientale, razzismo, l’educazione stradale) si chieda alle scuole di prendere una buona fetta di responsabilità e confezionare un pacchetto di ore di “Educazione a…”, con il pensiero (o forse la speranza) di aver fatto qualcosa e risolto alla problema alla radice. 

Di fronte all’ennesimo caso di femminicidio si è alzato il coro del: 

“Introduciamo l’educazione affettiva e sessuale nelle scuole”

Bene. Benissimo ma iniziamo ad approfondire chi dovrebbe farla, le modalità esercitate, in quale luogo, tempo e strumenti. 

Sono gli adulti che hanno la responsabilità di occuparsi di educazione, con tutte le sue complessità ma se andiamo ad indagare la società adulta attuale, il quadro attuale non è un augurio invitante. Fare da guida così è molto arduo. Con tutto ciò che ne consegue. 

Per cui educhiamo i bambini e le bambine, gli adolescenti partendo dagli adulti. Facciamo un lavoro di interazione tra le parti. Tutte le parti. 

Ci crogioliamo così nell’illusione che la scuola, sempre martoriata e con pochissimi fondi, abbia il potere da sola di risolvere un processo sistemico e culturale come quello del patriarcato.

Fare educazione ai piccoli è un passo importante ma non quello esclusivo. Non chiediamo alla scuola, soluzioni miracolose. Soprattutto, non chiediamole ad una scuola sempre più bistrattata, impoverita, con una burocrazia infinita, considerata ormai solo in funzione del mondo del lavoro (in cui predominano gender pay gap e soffitti di cristallo).

Iniziamo a dare i fondi alle scuole affinché le mura reggano, i banchi pure e costruiamola questa scuola democratica affinché sia luogo fondamentale per la costruzione del pensiero critico, dell’identità personale e civica.

La soluzione è molto più controversa e intrecciata. 

Cosa possono fare, infatti, un pacchetto di ore ad hoc spalmate qua è là, con nominazione prestigiosa nei PTOF  se poi i maschi alla scuola dell’infanzia sono giudicati se giocano con le Barbie o la cucina? o chiediamo loro di indossare un grembiulino rosa anziché uno giallo, blu o verde ad una bambina? Cosa possono fare, se poi lasciamo loro libero accesso a canali come Tik Tok? Cosa possono fare per una ragazzina di 12 anni che deve rifarsi il letto mentre suo fratello gioca alla Playstation? Cosa possono fare per l’adolescente che deve sorbirsi gli sguardi molesti e le pacche degli uomini adulti sul treno delle 7.20 che la porta a scuola? Per le studentesse brillanti che dopo aver preso voti eccelsi viene chiesto se hanno il fidanzato al pranzo di Natale? per i ragazzi e le ragazze che vedono sempre e solo la madre che si occupa dei compiti di cura domestici? per i messaggi pubblicitari, per la tv che incolpa sempre e solo le donne?

La scuola è un tassello significativo per contrastare la cultura dello stupro, ma un pezzo del puzzle. Come può fare per attivarsi in ottica di prevenzione per la violenza di genere sistemica? 

Ascoltare, accogliere, ascoltare, accogliere ad libitum, è quello che dovrebbe fare ogni educatore e insegnante nella consapevolezza della responsabilità del proprio ruolo. 

Si inizia al nido, e continuare poi per i gradi successivi alla conoscenza di sé e delle emozioni, in particolare della rabbia e delle sue sfumature, dando occasioni di relazioni sane all’interno della scuola, arrivando poi all’educazione affettivo-sessuale. Con personale esperto che dedicano incontri al personale e alle famiglie, oltre che alle ragazze e ai ragazzi. In questo modo il lavoro avviato nel laboratorio si intreccia con il l’agire quotidiano: solo così l’intervento di esperti esterni può avere ricadute efficaci.

Occorre lavorare nella cornice della scuola democratica, il whole school approach: diversi attori e professionisti lavorano insieme all’interno e all’esterno delle scuole, riconoscendo che ciascuna parte interessata ha un ruolo da svolgere nel sostenere il percorso formativo degli studenti e nel coltivare la loro esperienza di apprendimento

I pochi programmi si basano sul potenziamento delle abilità di vita (life skills), in una logica di empowerment, gli insegnanti vengono formati da professionisti psicologi/educatori e poi a cascata propongono delle attività alle ragazze e ai ragazzi con metodologie attive. L’idea alla base è che solo gli insegnanti, gli educatori, conoscono a fondo i ragazzi e la scuola e possono così non solo dare continuità ai progetti, moltiplicandone i benefici, restando all’interno della scuola come riferimento ma anche produrre cambiamento. 

Si lavora sulla pratica e sull’esercizio delle competenze acquisite (es: nella gestione delle emozioni) in una prospettiva a lungo termine. Occorre potenziare questi interventi con moduli specifici dedicati alla violenza di genere, per esempio rivolgendosi ai bystander e spiegando come intervenire in caso di molestie ecc. 

Gli incontri con gli esperti possono essere un supporto valido anche di esperienza del mondo, dobbiamo mostrare ai ragazzi e alle ragazze altri adulti in grado di raccontare loro una parte della realtà differente da quella stereotipata. 

In questa ottica l’educazione affettiva dovrebbe essere intrinseca in ogni momento della giornata, dal linguaggio utilizzato dai docenti, nella comunicazione non violenza ed empatica, rispettando le identità di ciascuno, con le proprie modalità di apprendimento.

Aggiorniamo i curriculum in ottica di genere. Leggiamo e commentiamo in classe Extraterrestre alla pari, Quaderno proibito di Alba De Cespedes, e Michela Murgia, indigniamoci di fronte allo stupro di Catherine Maheu, spieghiamo Olympe de Gouges e  Simone de Beauvoir. Al sistema educativo e scolastico, ai professionisti dell’educazione tocca il compito di interrogarsi su se stessi e su se stesse, sulle loro pratiche, soprattutto quelle involontarie, sul loro linguaggio, proprio in quanto membri di una società in cui le norme non scritte della discriminazione e della violenza di genere sono state profondamente interiorizzate, per scardinare in sé gli stereotipi, gli automatismi che ci rendono protagonisti attivi del patriarcato.

Così da rendere la scuola un luogo di sperimentazione di comportamenti e di relazioni, più eque, meno violente e meno sessiste per tutti e per tutte.

Qui puoi trovare il mio testo “Dalla parte dell’educazione”

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Annalisa Falcone
Sono un’educatrice e pedagogista. Non potrei immaginarmi a vivere felicemente senza questa meravigliosa e faticosa professione. Adoro leggere e la pedagogia è la mia passione più grande. Ho studiato e lavorato a Milano, Bologna e ad Alicante, piccolo e piacevole paese a sud della Spagna. Faccende di cuore mi hanno portato nel 2015 nell’affascinante Londra.

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