Il diritto dei bambini di essere chiamati per nome

Rispetto è una parola meravigliosa, viene dal latino respicere, ovvero “guardare due volte”. Dall’atteggiamento, dal nostro sguardo, dal linguaggio che usiamo nei servizi educativi, soprattutto come professionisti della cura. 

Richiama alla mente la Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenze in cui si proclama l’idea di bambino e bambina come soggetti di diritto. La convenzione chiama allora, adulti e istituzioni a ripensare al significato e alle pratiche dello sguardo adulto sulla vita del bambino e della bambina. 

Gli articoli 7 e 8 della Convenzione ci aiutano a mettere in luce aspetti che siamo per noti e scontati, soprattutto da parte di chi si occupa professionalmente di infanzia: 

Art. 7

  • Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi.

Art. 8

  • Gli Stati parti si impegnano a rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le sue relazioni familiari, così come riconosciute dalla legge, senza ingerenze illegali.
  • Se un fanciullo è illegalmente privato degli elementi costitutivi della sua identità o di alcuni di essi, gli Stati parti devono concedergli adeguata assistenza e protezione affinché la sua identità sia ristabilita il più rapidamente possibile.

Questi articoli affermano il diritto di ogni bambino a sviluppare in modo completo la propria personalità e ciò avviene anche sottolineando la loro identità, chiamandoli per nome. La professionalità si esercita anche con le parole che scegliamo ogni giorno, le parole non sono mai neutre. I bambini e le bambine sono gli amori e i tesori dei loro genitori non delle educatrici. 

C’è una professionilità nel nostro lavoro, e occorre metterla in campo. 

 Il nostro lessico ha il potere di dare forma alla realtà, di riconoscere l’altro in tutta la sua identità come persona unica. Si deve porre più attenzione alla dimensione affettiva nelle relazioni educative, perchè ci sono altre modalità per esprimere la nostra cura “amorevole” ai bambini. I “tesoro”, “amore” sono inoltre anche generici e se altamente condivisi possono far perdere il focus sulla nostra esclusività con i bambini.  è un’abitudine dettata da una cultura in cui i legami corporei e affettivi sono molto accentuati ), e anche se spinti da buone intenzioni rischiano di far perdere i confini di ruolo e professionalità. 

Nell’abitudine di usare vezzeggiativi si può pensare erroneamente di creare un clima confidenziale, ma dobbiamo comprendere le motivazioni che si celano dietro il nostro agire. 

La relazione educativa fatta di fiducia reciproca, si può tessere con  tono di voce modulato, gestualità, sguardo, espressione facciale appropriata. Con una postura che espliciti il “Io sono qui, accanto, presente”. Quella postura denominata da Maria Montessori presenza discreta, dell’essere a fianco senza sostituirsi o diventare ingombranti. 

Sono riflessioni che toccano nel profondo il nostro essere prima persone che professionisti e hanno radici profonde nella nostra infanzia, dai nostri vissuti e dal pensiero bambino. Può essere una reminiscenza che ci portiamo dietro dallo “sguardo classico” sul bambino. Un esserino che fa tenerezza, simpatico, da maneggiare, qualcosa che fa sorridere e, a volte, con questa gioia e delicatezza cura le ferite dei grandi. 

Non è questo il suo scopo, curare le ferite delle persone che si occupano di lui, questa è una faccenda che ogni persona deve risolvere con un lavoro profondo su di sé, costante e perenne. 

Quei vezzeggiativi che vengono offerti, sia in positivo sia in “negativo”, di cui spesso non abbiamo la consapevolezza, richiamano una immagine di bambino come persona che non comprende, che non ascolta. Una riflessione che nasce è legata anche all’utilizzo quasi costante, del diminutivo -ino ( manine, sederino, nasino, piedini, boccuccia, …) per identificare le parti del corpo. Tutto ciò abbia inizio sempre da quello sguardo con la quale l’adulto osserva e si relaziona al bambino: un processo lento, complesso e faticoso di comprensione, messa in gioco e decostruzione.

Ci sono altri modi per esprimere affetto ed emozioni, gli stessi che poi chiediamo ai bambini di metter in atto. Bisogna fare molta attenzione al linguaggio non solo perchè definisce la relazione e il senso dei ruoli ma soprattutto perchè costruisce confini professionali ed identitari.

La questione non tocca nemmeno la dicotomia “caldo-freddo”. Non è la parola Amore che ci rende caldi ma il modo in cui la nostra voce, lo sguardo, il corpo si “predispone verso”. “Vieni Bianca” pronunciato con quel calore ha un effetto benefico e altamente identificante per quella bambina. Stai parlando proprio a lei, di lei. La vedi, hai desiderio di prendertene cura.

A volte o più di frequente, più o meno inconsapevolmente, si sottende un pensiero sul bambino considerato come essere fragile, debole costretto a stare tante ore lontano dagli affetti che in qualche modo noi gli dobbiamo offrire poiché non lo fanno i genitori. 

Un pensiero quasi inconfessabile e a volte inconscio. Qui però si confondono i piani e c’è il rischio di mescolare anche ruoli e funzioni. 

Noi siamo professionisti della cura, abbiamo un sapere, una teoria a cui fare affidamento, e in quanto tali dobbiamo saper tradurre le emozioni che proviamo in prassi professionalmente adeguate, affettivamente potente che non sia richiamabile però alla sfera intima e familiare. Le parole che si usano definiscono il ruolo e la relazione che si costruisce. Le emozioni e l’affetto hanno milioni di possibilitá espressive, è corretto riflettere su quelle adatte al ruolo.

Soprattutto all’interno di un contesto con forti connotazioni affettive, occorre comprendere esorvegliare le nostre azioni ed intenzioni, con la consapevolezza che proprio la professionalità che si invoca, informi anche le parole di accoglienza, di gioia, di tenerezza, di vicinanza, di conforto….

Questo è un pensiero che deriva anche da uno sguardo tradizionale sull’infanzia, i bambini sono anche soggetti che emanano una certa tenerezza. Quei vezzeggiativi che vengono offerti, sia in positivo sia in “negativo”, che spesso vengono espressi inconsapevolmente perché si ha una immagine di bambino come persona che non comprende, che non ascolta. Pensiamo anche all’utilizzo quasi costante, del diminutivo -ino (manine, nasino, piedini, boccuccia,…) per identificare le parti del corpo. Un’abitudine che parte sempre da quello sguardo con la quale l’adulto osserva e si relaziona al bambino: un processo lento, complesso e faticoso di comprensione, messa in gioco e decostruzione.

Essendo educatori dobbiamo (e qui si uso l’imperativo assoluto) lavorare per incentivare identificazione, autonomia, senso del sè coeso in un clima emotivo sereno. Significa domare le proprie spinte fusionali equilibrandole con quelle professionali della giusta distanza (che non coincide con freddezza). Il legame unico e speciale che tendenzialmente ci viene naturale con alcuni e molto meno con altri va mediato da autosservazione consapevole, e posizionamento interno professionale che ci aiuta a modulare il troppo in entrambi i sensi.

Perché ricordiamoci, i bambini sono comunque persone anche se piccole…. è importante porsi domande per offrire loro un mondo in cui la dignità umana diventi il pilastro essenziale delle relazioni con sé e gli altri.

Qui puoi trovare il mio testo “Dalla parte dell’educazione”

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Annalisa Falcone
Sono un’educatrice e pedagogista. Non potrei immaginarmi a vivere felicemente senza questa meravigliosa e faticosa professione. Adoro leggere e la pedagogia è la mia passione più grande. Ho studiato e lavorato a Milano, Bologna e ad Alicante, piccolo e piacevole paese a sud della Spagna. Faccende di cuore mi hanno portato nel 2015 nell’affascinante Londra.

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